Bellissima festa, ieri
alla scuola JICE, dove tempo fa mi sono spezzato le corna a (provare a)
imparare il giapponese. Un anno fa c’era stata la prima di queste feste, ma
ieri tutto è cambiato. Le pentole e gli spettacoli sono stati affidati agli
studenti, oggi in gran parte nepalesi, bengalesi, vietnamiti e cinesi. I
gringhi, fra cui il mio compaesano Goya-san, sono diventati un’esigua
minoranza, una nicchia. Nell’ultimo anno, grazie alla possibilità del visto di
studio che permette di lavorare part-time, e grazie a un programma di scambio
studentesco fra Okinawa e il Bangladesh, Naha ha visto un afflusso esponenziale
di asiatici di quelle regioni. In buona parte qui per trovare un lavoro, usando
lo studio del giapponese come una scusa. Come sempre l’immigrazione porta lati
positivi e lati negativi. Ieri io ho visto soprattutto i primi.
Gli spettacoli alla
festa hanno rappresentato al meglio la gioiosità di quei popoli. Danze
scatenate in sari, tra Bollywood e le commedie sexy indiane. Teatro da far
sbellicare (i bengalesi a caccia di un arbaito,
lavoro part-time; una parodia vietnamita del cattivo contadino che si ubriaca e
fuma Marlboro). Performance di karate e di spada, quest’ultima impugnata da una
russa cattivissima. Hip-hop filippino. L’inno bengalese cantato tutti in piedi
con una mano sul cuore. Canzoncine giapponesi cantate da cori con membri di una
dozzina di Paesi. E, non poteva mancare, uno spettacolo tambureggiante di
okinawaissima Eisa, anche se chi
sbatteva sui tamburi erano delle filippine. Tutto MOLTO bello e divertente (e
con MOLTA gnocca multicolor, by the way).
In parallelo all’orgia
di musiche, ombelichi e occhietti ammiccanti c’è stata pure l’orgia di calorie,
altrimenti che festa sarebbe stata. Il maestro dello slow-food, il mio amico Goya, ha pianificato per un’intera
settimana un ottimo menù da servire al Goya Café. Purtroppo, però, è stato
travolto dal fast-food all’asiatica
sul campo di battaglia, l’attrezzatissima cucina della scuola. Dopo aver steso
ettometri di tagliatelle fatte a mano, sfornato tortine alla frutta bellissime
e buonissime, è stato fagocitato dall’orda vietcong. Il terzo piano della
scuola si è trasformato in una bailamme di piatti saporiti, dalla Mongolia a
Taiwan, passando per tutto il resto dell’Asia. L’amico inglese Jon ha fatto il
suo delizioso stufato, e per fortuna me ne ha lasciato un bicchierino, perché
da che mondo è mondo o si fotografa o si mangia, ma le due cose assieme non
funzionano granché. Arrivato alle due e mezza con le viscere in mano, avendo le
cavallette spazzolato tutto ciò che c’era di commestibile (unici avanzi:
zuppette russe), mi sono chiuso in cucina con Goya e con pochi fidati pasdaran e
abbiamo spezzato le reni alle ultime tagliatelle.
Al piano superiore c’era
una mostra antropologicamente interessantissima. Gli students avevano disegnato
cartine dei loro Paesi di provenienza. Goya, unico membro italico di quella
struttura, da bravo partigiano felsineo ha dato il giusto rilievo alla mitica
Bulàgna, lasciando in secondo ordine le altre inutili città italiane. Poi
qualcuno, ma non voglio fare nomi, ha stampato dei facsimile di LIRE italiane
come valuta del Bel Paese. Rimasto un filo indietro o, visti i tempi che
corrono, preveggente.
La baraonda è finita
come da copione alle tre del pomeriggio, e come sempre in Giappone, un minuto
dopo tutto era evaporato, pulito, riordinato. Lo slow menu di Goya aveva previsto anche le bolognesissime,
carnevalesche sfrappole, che i coatti di altri regioni minorate chiamano
chiacchiere, frappe ecc. Avendo, però, l’orda mongola okkupato le cucine non ci
sono stati i tempi tecnici per portare a termine l’Opera. Alle 3,01 è piombato
nelle cucine lo sbirro della scuola, un filo-rambo con il gel che, da buon
gallo nel pollaio, ha messo tutti gli studenti in riga a lavare i grassi. Ho quindi
dirottato Goya, a corvée conclusa, verso la mia dimora, dove tra pochi intimi
abbiamo fatto un succoso sfrappola-party. Lo zucchero a velo non c’era, ma
abbiamo usato quello di canna, purtroppo non quella italiana, che qui a Okinawa
abbonda. Affatto male. Poi Satoka, come sempre, ci ha messo del suo, proponendo
di fare le sfrappole con il S-A-L-E. È noto come ai giapponesi i dolci con il
dolce sopra non piacciano. Dopo una prima doppia bestemmia, io e Goya ci siamo tirati
giù le braghe e, OK, via di sale. Beh, sapete una cosa? Le sfrappole con il
sale sono B-U-O-N-I-S-S-I-M-E! Se solo ci fosse qualche fettina di prosciutto
da ‘ste parti, però, diobonino.
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