Ieri sono andato in
gita scolastica e abbiamo fatto tappa all’Okinawa World (http://www.gyokusendo.co.jp/okinawaworld/en/), una specie di ‘Okinawa
in miniatura’ dalle parti di Itoman e Nanjo. Sono sopravvissuto due anni e
mezzo a Okinawa senza mettervi piedi (così come nelle basi americane) perché sono
prevenuto nei confronti di certe forme di sollazzo. Fino a ieri, infatti,
pensavo che l’Okinawa World fosse una puttanata per turisti. Da ieri ho una
certezza in più: l’Okinawa World È una puttanata per turisti.
Del luogo direi che
salvo solo gli shisa spettacolari
messi qua e là – in primis i due fatti con siepi e vasetti da fiori all’ingresso
– e la coppia di fantastici pappagalli rossi purtroppo prigionieri in una
gabbia. Tutto il resto lo lascio volentieri a turisti cinesi, coreani e
scolaresche in gita. Siamo andati lì per assistere alla milionesima esibizione
di Eisa della mia esistenza (i
tamburi taiko, bellissimi, stanno
lentamente iniziando a uscirmi dagli occhi e dalle orecchie).
Esibizione
impeccabile, per carité. I musicisti-ballerini erano talmente bravi e sinergici
e allenati che sono riusciti perfino a coinvolgere un paio di gruppi di nonni
rimbambiti, tenuti sulla Terra grazie a buone dosi di psicofarmaci. Anche se su
sedie a rotelle e sguardo verso Marte, alcuni di loro battevano il ritmo con le
mani. Il gruppo che si è esibito, però, è coadiuvato da un mini-esercito di
fanciulle che girano con cartelli in quattro lingue in cui ti dicono che NO,
PROPRIO NO, NON PUOI FOTOGRAFARE NÉ RIPRENDERE L’ESIBIZIONE.
Eccheccazzo, chi sono, la
Filarmonica di Vienna per il concerto di capodanno? L’Okinawa World è un circo
fatto a uso e consumo dei turisti, se ai turisti togli la macchina fotografica
e la videocamera, che cosa resta loro? Solo un paio di braghini corti e l’espressione
di chi si è perso sul volto? Non lo so, tutta quella marea di cartelli,
ribadita da veneri ambulanti con i medesimi fra le mani, mi è sembrata davvero
eccessiva, quasi nazi. Ingiustificata.
Di fianco all’Eisa for your eyes only c’è il pitone birmano
a tassametro. Vuoi provare la sensazione di annodarti una cravatta di ciccia
pulsante, viva e strisciante, bianco-gialla di un paio di metri? Paga mille yen
e sorridi mentre le sfruttatrici della povera bestia ti fanno click con la loro
macchina fotografica. Proibitissimo, però, fare click tu, con le tue manine. In
Giappone i sindacati hanno il potere di un calzino bucato, per cui figuratevi
quali diritti spettano a un povero pitone strappato alle giungle del Myanmar e
condannato a fare il modello per turisti gonzi finché morte non lo separi.
Le scolaresche, come la
mia, impazziscono per toccare la povera bestia, che non ha piedi né ali per
scappare. Quella per le serpi, in effetti, è una fissa dell’Okinawa World. Non
lontano dal povero pitone c’è pure l’Habu Museum, dove puoi vedere un bel po’
di viperoidi indigeni (che spesso finiscono nell’awamori locale, http://unitalianoaokinawa.blogspot.jp/2013/04/awamori-lo-spirito-di-okinawa.html). Cartelli
disseminati qua e là affermano che ‘Habu
Love Girl’s’.
Non mi è chiaro se il
messaggio onirico di questi cartelli mi suggerisce immagini hardcore zoofile
grazie all’inglese maccheronico o se grazie al mio cervello andato a male.
Certo è che, visti i cartelli, qualunque cervello con più di sette anni è in
grado di trarre le dovute conclusioni. A Naha leggende metropolitane narrano
delle lotte quotidiane fra l’habu e
la mangusta in questo spassosissimo parco divertimenti, ma io ieri mi sono
perso il piacere di questo spettacolo. Se fosse per me condannerei tutti i
toreri dell’universo a farsi ingroppare dal toro, prima di essere incornati.
Potete immaginarvi che cosa sogno per gli sfruttatori di serpi.
Okinawa World, appena
posso NON ci ritorno.