lunedì 21 luglio 2014

PINK DOT, 2ND ROUND


This afternoon, along Kokusai-dōri, has been held the 2nd edition of the LGBT annual gathering, organized by the group Pink Dot Okinawa. At the bottom of Tenbusu Building, the event has been a joyful moment in a part of a country that hardly tolerate homosexuality. Probably Japan is one of the last countries in the world – after Russia and some African nations that still live in the Middle Age - to open his mind about this topic. The local LGBT community, however, is growing and willing to live like any other human being, free to love whoever they want.


















As during the previous edition (http://unitalianoaokinawa.blogspot.jp/2013/07/pinkdot-il-rosa-e-emerso-pinkdot-rose.html), everybody wore some pink cloth. I’ve been lucky to have a ‘Think Pink’ shirt in my Hawaian shirts collection… This year a big difference, compared to the last edition, has been the presence of two gay couples officially married in the U.S.A. and in Canada. They brought their special experience, as something really unseen before in Okinawa. A couple has been together for 27 years – a record even for a ‘straight’ couple -, another brought the witness of an Okinawan husband/wife married to an American wife/husband. They went through an unusual ceremony along Kokusai-dōri, a road that mostly sees tourists hunting for food and souvenirs. They signed a marriage book, exchanging pink scarfs and some kisses. The throw of the bouquets made happy two couples, a lesbian one and a gay one.















A final, group photo taken by the last floor of the gay-friendly Hotel Palm Royal, nearby, closed the happy and peaceful event. Many Okinawans, today, learnt something new about life.


mercoledì 16 luglio 2014

ZAMAMI 2, LA PROSSIMA VOLTA CI PIANTO LE TENDE


La volta scorsa dovevo i ringraziamenti alla $uocera, stavolta li devo al governo di Naha – che ci ha regalato i biglietti del traghetto e 5000 yen di sconto sulla camera in affitto – e all’amica Megumi, in arte Meg, una delle fedelissime seguaci dei workshop di pappe caserecce (ci ha ospitato, foraggiato, ingrassato, fatto scovare le tartarughe, fotografati con le medesime, prestato le pinne e poi forse molto altro che ora non ricordo).






Tornare a Zamami dopo circa una decina di mesi, in piena estate (traghetto intasato di carne randagia, alcuna pure con bello smalto ai piedi), è stata una bellissima seconda volta. Tempo perfetto, dopo la Grande Mestruazione (il tifone spazzatutto di alcuni giorni fa), ospitalità impagabile, menù quasi stellati o stellari, fate voi. La prima notte l’abbiamo passata, io e Satoka, a casa di Meg. Abbiamo conosciuto suo figlio e il suo compagno, le sue galline e la sua gatta Katsu-chan. Per l’occasione mi sono portato da casa un pacco di gramigna all’uovo Granarolo speditami da mamma (addio che si trova a Okinawa), e non è per vantarmi, ma Hidehito-san, il partner di Meg, ha detto che era la pasta più buona che aveva mangiato in mezzo secolo di vita su questa galassia (la Granarolo sa quello che fa, non è mica pastazza turca). Hidehito-san si nutre soprattutto di pesce, che raccatta con le proprie mani: ha il freezer stivato di aragoste. In Europa i mafiosi russi le pagano a peso d’oro, ma a Zamami gli indigeni non le ‘capiscono’. Dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale – come altri posti di Okinawa, Zamami fu teatro di atrocità inaudite durante l’invasione gringa - gli indigeni sopravvissuti, poveri in canna, si dedicarono al cibo più semplice ed economico disponibile, perlopiù soba, ignorando i poveri crostacei amati invece dai califani del resto del mondo.






Tra un’abboffata e l’altra siamo pure finiti in acqua. Stavolta la spiaggia in cui di solito si possono vedere le tartarughe sott’acqua era popolata da una mini tribù di turisti vestiti come lapponi, per proteggersi dal sole. Mute e cappelli e guanti e ombrelli e parafulmine. Qualche cinese vociante qua e là, li mortacci. Tutti lì a pagaiare, per fare la traversata dello stretto fino all’isoletta dirimpettaia. Non capirò mai perché la ggente non si basta e se fa un salto in paradiso DEVE fare cose, sport, usare accessori, travestirsi. Fondamentalmente spaccare il cazzo al prossimo, anziché starsene buonina a contemplare il mare blu che più blu non si può. Per un quarto di secolo ho campato di turismo (spacciando foto alle riviste, accompagnando gli zombie in giro pel mondo), ma oggi, ormai sulle soglie del nazionalsocialismo domestico applicato, quasi quasi, se mi dessero le chiavi del Tutto, mi sa tanto che il turismo lo proibirei. Tutti a casina propria a guardare la TV. Permesso rilasciato di trasportarsi in giro solo alle belle gnocche, ai geni ecosensibili, ai gentleman e ai venditori di gelati.








Il secondo giorno sono andato a caccia di tartarughe (da ammirare da lontano attraverso gli oblò della mia maschera da palombaro) solo soletto – Satoka dormiva o si dedicava alla biru -, ma non sono riuscito a vederne una. Eccesso di canoe con disperati sopra, I guess. Il terzo dì, però, Meg ci ha guidati verso una distesa di coralli di sua conoscenza – gli isolani ne sanno sempre mille di più dei gonzi di città -, e lì ci siamo sentiti biondi e immersi in una laguna blu. Satoka non era Brooke Shields prima che si dedicasse al tennis, però andava bene lo stesso. Abbiamo visto due tartarughe ‘rosse’. La prima ci ha ignorato, di bolognesi accompagnati ne deve vedere uno ogni mezz’ora. La seconda, in miniatura, si è presa uno spavento bestia (forse ha scambiato la mia pancetta birrosa per una barca di pescatori ammazza delfini/balene), ha innescato la quarta ed è fuggita a razzo verso gli abissi più misteriosi. Nuotare con le tartarughe per me non ha prezzo, in quei momenti mi dimentico pure il mal di mare del traghetto e le cosce delle sue passeggere.








Fra una nuotata e l’altra Meg ci ha infilato pure un barbecue con i fiocchi. Ciccie e crostacei e verdure spettacolari alla griglia, annaffiate da birre e vini, spettacolari pure loro. Io non sono un alcolista, non ho il fisico, per cui dopo un paio di biru rantolo a letto, ma Satoka ha una resistenza quasi brasiliana, per cui due notti su due l’ho abbandonata alle chiacchiere alcoliche mentre andavo a fare all’amore al cuscino. Cronache etiliste a parte, devo dire che a distanza di dieci mesi non ho visto grandi cambiamenti a Zamami. Ha aperto una nuova guest-house gaijin e un’altra ha messo sculture XXL, tra il buffo e il burino, all’ingresso, per attirare clienti. La gente del posto è sempre piuttosto burbera, come in tutte le isole del mondo. Il tifone ha fatto un po’ di danni – per la prima volta in oltre tre anni di Okinawa ho visto ben due shisa abbattuti -, ma l’isola ha attutito il colpo. Stavolta ho notato che qualcuno ogni tanto (ogni giorno?) cambia la ghirlanda di fiori che decora il collo della statua del cane arrapato che faceva su e giù dall’isola dirimpettaia a nuoto per trombare (il bello è che gli umani non ci riescono, le correnti sono troppo forti e chi ci prova finisce sempre con il regalare 1000 yen ben spesi al barcaiolo che lo soccorre mentre annaspa). In pratica la statua del cane è come l’Empire State Building, che cambia illuminazione ogni notte. Poi, per chiudere, ho scoperto che c’è un bel business di noleggio pinne/maschere/sdrai ecc. Un nonno dà passaggi ‘gratis’ sul suo furgone (zero sorrisi, solo passaggi) se poi per immergervi noleggiate un tubo succhiato dagli altri presso la nonna di fiducia. Forse, quando pianterò le tende anch’io a Zamami, farò uguale (in realtà mi sa che spaccerò Pietropappe, a me i tubi succhiati degli altri non sono mai piaciuti un granché).