lunedì 7 aprile 2014

BACAR, LA GRANDE ABBUFFATA



Tutto meglio del previsto, ieri al workshop di Pietrofood-Itarian cuisine da Bacar, la migliore e unica pizzeria degna di nota a Okinawa. Più che un workshop è stata una festa, tanto la cosa è riuscita. Ma partiamo dal famoso inizio.
Nelle settimane scorse ho lottato per scovare tutti gli ingredienti necessari senza svenarmi. Il nemico peggiore è stato l’aumento dell’I.V.A. che il governo giapponese ha appioppato al pueblo fra capo e collo per pagare le olimpiadi al plutonio del 2020. L’aumento, in teoria, avrebbe dovuto essere stato del 3%, portando l’I.V.A. dal 5 all’8 (lo so, per noi italiani è fantascienza, ma qui in Giappone le tasse le evadono solo i picciotti della yakuza, e sono una minoranza minorissima). In realtà, come in ogni angolo del globo, i negozianti hanno approfittato di quest’occasione più unica che rara (in tre anni che sono qui non avevo visto aumentare di 1 yen un solo prezzo) per stangare ingiustificatamente. Tipo passaggio dalla lira all’euro, you know what I mean…
Anche il mio pusher di fiducia, la catena Kaldi (nata importando caffè, poi allargatasi a tutte le pappe del mondo), ha stangato. L’altro giorno, quando sono andato a fare la spesa subito dopo il 1° di aprile – data scelta ad hoc per prenderci tutti per il culo? -, la robba aveva avuto un rincaro almeno del 10%, se non del 25. Tornato a casa ho scritto un’e-mail di fuoco al Sig. Kaldi, ma scommetto tutte le tagliatelle De Cecco che ho a casa che non mi risponderanno mai:

To Kaldi Coffee Farm:
I am an Italian chef living in Naha, Okinawa.
Frequently I hold Italian cuisine workshops and buy my ingredients mostly at your shop at the Naha Main Place mall.
Until yesterday I've been always very happy about your products and made a lot of publicity of your shops to my clients.
Yesterday I went to buy the usual products and I' was shocked. The olive oil that I usually buy went from around 750 yen to over 1.000!
Pasta Monsurrò - spaghetti and linguine - from around 180 yen to over 200!
This does NOT correspond to the governament decision to rise taxes from 5% to 8%!
It's pure speculation!
Starting from today I will look for another company where to get my imported foods and stop making any free publicity to Kaldi.
Sayonara



Ecco, mi sono tolto il sassolino dalla scarpa. Alla fine dei conti sono riuscito a fare la mega-spesa (circa 16.000 yen), anche grazie all’aiuto di Pietro 2 del ristorante Volare (che mi fornito bucatini altrimenti introvabili) e di John ‘The Cheese Guy in Okinawa’ (che mi ha dato del fantastico Blue cheese da usare come Gorgonzola). Ieri verso le 9 del mattino, aiutatissimo dalla fida Satoka, ho preso un taxi e, con quattro sacchi giganteschi dell’Ikea e della Coop italiana pieni di ogni ben di dio, abbiamo raggiunto Bacar.


Innanzitutto abbiamo decorato con i miei gadget il locale, che già di suo è una figata (vecchi tavoli da cucito, forno per la pizza gigantesco fatto da uno scultore di Tokyo, figatine italiche assortite sparse qua e là). Abbiamo appeso un po’ di mie foto dell’Italia, una grande cartina dello stivale, appiccicato su un muro le liste con gli ingredienti che avrei usato e stesi, come fossero bucato, bigliettini in inglese e romaji, il giapponese per gaijin, così da poter provare (io) a dire qualcosa nella lingua indigena. Il bigliettino che più ha avuto successo è stato ‘Mix slowly, please. Like if you were caressing your cat’, ‘Anata no neko wo naderu youni yukkuri masete kudasai’. Alle spalle della macchina del caffè – il migliore e unico espresso di Okinawa – abbiamo issato la mia bandiera della marina militare italiana, un’autentica chicca che ho scovato in un negozietto pulcioso dell’usato sotto casa. La deve aver rubata un marinaio da un nostro bastimento e venduta in cambio di un bicchiere di sakè.












Alle 10,30, puntualissimi, si sono presentati tutti i quindici partecipanti: dodici donne e tre uomini. Hanno partecipato anche amiche che da tempo mi seguono, prima nei miei workshop di fotografia e di italiano, poi in quelli di cucina: Tomomi (al terzo giro!), Eriko e Megumi. È stato bello incontrarle ancora una volta. Nel mazzo c’era pure qualche modella che ha reso difficile la concentrazione sui fornelli, ma da tempo ho imparato a far finta di non vedere. 


Ho iniziato con una breve introduzione sui piatti italiani più noti, preceduta dalla classica ouverture in cui mi scuso per il mio giapponese inesistente. Dunque ho schiacciato il pulsante dell’inglese e l’insostituibile Satoko ha tradotto parola per parola. Qua e là un po’ di italiano, perché fa figo ma anche perché Daisuke, in arte Daisuman, il proprietario di Bacar a cui devo tutto ciò, lo parla. Ho illustrato gli ingredienti e la loro provenienza, senza soffermarmi più di tanto a pubblicizzare Kaldi. Barattoli di pelati Divella e Solleone, concentrato di pomodoro Mutti – uno degli assi nella manica di quella incommensurabile cuoca bolognese che era mia nonna Giorgina -, pasta De Cecco e l’ottima Monsurrò. L’unico pacchetto di rucola che sono riuscito a trovare, buon olio d’oliva Ranieri, lambrusco delle cantine Riunite e un mare di altra roba.













I lavori sono cominciati mettendo i partecipanti a tagliare tutto il tagliabile. Due gentleman si sono occupati delle insalatone, mentre le girls hanno tagliuzzato tutto il resto. Poi fuoco alle pentole. Siamo partiti dal ragù, che notoriamente non si fa in un quarto d’ora. Ecco il menù, per farla breve:

Tagliatelle gialle De Cecco al ragù
Tagliatelle verdi De Cecco ai funghi cotti nell’aceto balsamico
Linguine al tonno cotto nel sakè e pomodoro
Bucatini all’amatriciana
Spaghetti alla carbonara
Penne al peperone verde e parmigiano
Penne alla Norma
Risotto di riso integrale di Hokkaido con Blue cheese e funghi cotti nell’aceto balsamico
Fegato alla veneziana marinato nel limone
Insalatona con pomodori secchi turchi e olive spagnole (ho dovuto sconfinare, non avendo trovato ingredienti nostrani)
Pane passato in padella con olio d’oliva e rosmarino




Tutto è andato bene, anche perché sono stato aiutato da due Superman che lavorano da Bacar: Yuzo-san, in arte Pastaman, e Chikara-san, forzuto semi-modello. A loro, oltre che a Daisuke per avermi offerto la possibilità di questa avventura, devo almeno mille GRAZIE. Senza di loro, lavoratori infaticabili, l’abbuffata sarebbe stata impossibile.













Le penne alla Norma, che di solito faccio molto bene, sono venute così così (melanzane troppo amare? neanche lo zucchero che ho aggiunto le ha addolcite), ma il resto è stato spazzolato a quattro palmenti. In primis le regine tagliatelle  - tutte le volte che le faccio non ne avanza mezza -, e poi il fegato, stracotto e diventato quasi spalmabile sui crostini. Daisuke ha servito ottimo vino per far quadrare il cerchio. Tutti, come sempre, hanno fatto Ohhhh! quando ho cotto il riso quasi come fosse pasta, addirittura lavandolo in acqua fredda dopo la cottura, prima di passarlo in padella. Qui in Giappone (e in Corea) di solito il riso si cucina in macchine apposite, per cui qualcuno deve pensare che la mia tecnica sia da marziano, ma il risultato è che poi tutti spazzolano i piatti.


Altri miti sfatati: non ho usato un solo spicchio d’aglio – per me antisociale e antibaci -, in un Paese in cui Itaria = girolami mangiatori di tonnellate d’aglio. Un simpatico partecipante, Kazuya-san, ha un ristorante spagnolo a due passi da Bacar (Bar Antoñito) e, oltre a offrirci aiuto con attrezzi da cucina - MUCHAS GRACIAS, Kazuya-san! - si è scusato mille volte perché nella sua cucina l’aglio domina. Gli ho detto che è solo una questione personale e che i più, nel mondo là fuori, marciano ad aglio. Anche la carbonara ha destato curiosità, perché qui di solito, se non è una frittata (uovo con il bianco passato in padella a fuoco acceso) è un brodo affogato nella panna da cucina, per me ingrediente classico di chi non sa cucinare.




I piattoni sono stati serviti, uno a uno, sul bel bancone del ristorante. Alcuni mi hanno regalato i loro ‘Buono!’, purtroppo con qualche indice roteato nella guancia. Satoko ha fotografato qua e là, facendo una Grande Opera di traduttrice e ambasciatrice (suo anche il timbro che ha fatto con le sue mani!). Ai partecipanti ha fornito delle fotocopie con qualche nozione di base sulla pasta italiana corredate dalle sue belle illustrazioni. Brava ragazza, non l’ho mica sposata per caso/procura.


Alla fine dell’orgia caffè Lavazza per tutti eiaculato dalle due moka che uso a casa, poi foto ricordo dell’ammucchiata all’ingresso del locale.





Settecento ARIGATO+GRAZIE+THANK YOU!, poi siamo tornati a casa, stanchi stracciati ma felici.

L’11 maggio si ripete, ma con un menù completamente diverso. Fare sempre le stesse pappe mi annoia.

Arigato, minna-san!!!




P.S.: essendo impegnato sui fornelli, non ho potuto selfiarmi. Queste foto sono state fatte da Satokissima, Tomomi-san, Yota-san e Daisuman, GRAZIE, fotografi!


venerdì 4 aprile 2014

KAZZ’È? È KOZA


Più o meno nell’ano di Okinawa City pulsa – o meglio, pulsava – un sobborgo cresciuto a immagine e somiglianza dei rambo in libera uscita. Si tratta di una ‘cosa’, più di una città vera e propria, dunque ‘Koza’, in giapponese molto libero. La ridente periferia americana in miniatura si è sviluppata, nel tempo, attorno al tubo di scappamento, il cancello, di una grande base militare americana. Come tutti i tubi di scappamento, ha visto i suoi alti e bassi. Uno degli alti che purtroppo mi sono perso fu nel 1970, quando gli indigeni, definitivamente rottisi nei coglioni per la presenza gringa, in una notte di buon sakè diedero alle fiamme le auto degli occupanti armati. Momento storico, anche perché poi non si è ripetuto, nonostante la collection di stupri e sbronze stronze in libera uscita a seguire. Le foto di quella notte di fuochi non fatui sono tutto ciò che rimane dell’unica, seria presa di posizione degli abitanti del luogo, poi abituatisi passivamente ad aprire silenziosamente le natiche e lasciar fare agli ufficiali poco gentiluomi. Il sakè che si faceva negli anni Settanta, purtroppo, non circola più.











 








Koza ha avuto periodi di gloria economica che hanno attirato mini-eserciti di immigrati, venuti ad abbeverarsi alla fonte del Dio Dollaro: filippini (soprattutto filippine, impiegate indovinate in quali sante istituzioni), peruviani, indiani e altri –ni assortiti. Lungo la strada principale del postaccio, quella che esce direttamente dal tubo di scappamento, sono cresciuti barazzi e barbieri hip-hop, boutique di alta moda pachistana e spacciatori legalizzati di alimenti monsanti. Tutto molto chiassoso e colorato, soprattutto di notte e nei fine settimana. I locali alternano cartelli del tipo ‘U.S. troops welcome’ ad altri ‘NO U.S. military allowed inside’, variabili forse a seconda del numero di sorelline stuprate che il proprietario ha.



Una via parallela alla principale ha imitato i portici bolognesi e si è arricchita con negozietti assortiti, fra cui quello del mitico Victor, un indiano qui dalla notte dei tempi. Nel suo rifornito negozio, praticamente una succursale dell’India, si può trovare tutto ciò che quel benedetto Paese ha da offrire (a parte gli stupratori di turiste), dalle polverine magiche per fare mille e un curry ai sari per tutte, o quasi, le occasioni. Poco più in là c’è il punto di spaccio di American Pizzaman, di proprietà di un modestissimo e umilissimo sfamatore che si pregia dell’auto-titolo di ‘Best pizza in Japan”. Altre poco stimate aziende nei dintorni – dal fotografo che immortala i gringhi travestiti da antico giapponese ai ‘ristoranti’ italiani dove è consigliabile entrare solo dopo aver stipulato una buona assicurazione sanitaria -, ma a Koza la qualità è un dettaglio per europei effeminati, di scarso interesse per i più.















In una via pedonalizzata, che porta alla galleria commerciale del cuore di Koza, ci sono bei murales con gatti e qualche chicca davvero buona. Prima fra tutte il piccolo ma interessantissimo museo dedicato al periodo della guerra e all’occupazione – fisica e culturale –americana. Il locale sa di casereccio, cartelli scritti a mano e formulario per i commenti in solo giapponese, però proprio per questo è più succoso. Passo lì dentro mezza giornata ogni volta che ci passo, tante sono le figate esposte. Juke-box da balera nippo-gringa, foto d’antiquariato, giocattoli vintage e resti di bombe, vecchie macchine per cucire e taniche per il carburante da cucina, fumetti antichi e gadget da giocatore di baseball. Una sezione fotografica è dedicata alla rivolta di strada del ’70, un’altra al contingente afro-americano.

















Il piccolo museo è a due passi dall’Okinawa City International Association, un’organizzazione che cerca di mantenere Koza culturalmente viva, aiutando gli immigrati con lezioni gratuite di giapponese e organizzando eventi. Nei prossimi mesi vi dovrei tenere un’italianata e sto cercando di radunare i quattro girolami residenti a Okinawa per capire che cosa fare, ma da bravi italiani ognuno si fa i fatti propri e dunque mi sa che alla fine sarò solo io a sventolare tricolore e tagliatelle.


Nella galleria commerciale sopravvivono negozietti di natura varia. Alcuni vendono ciarpame americano usato. C’è pure un piccolo studio in cui si insegna ai bambini a scimmiottare le mossette da hip-hopper del Bronx, come da migliore cultura samurai… L’immigrazione, però, ha anche i suoi lati positivi. Vicino alla galleria c’è il ristorante peruviano Titicaca dove si godono ottime pappe a prezzi popolari (ma attenti allo stramaledetto coriandolo e alla velenosa Inka Cola!) e una chicha di prima scelta. Poco più in là c’è un ottimo ristorante taiwanese con arredamento più unico che raro, e per chi piacciono i piatti trisunti non mancano le mangiatoie filippine.







Negli ultimi tempi, però, Koza ha avuto un tracollo, trasformandosi in una città semideserta. I militari in libera uscita avevano preso a infilare le cappelle a destra e a manca, soprattutto dopo qualche bevuta di troppo e anche nelle cavità delle fanciulle che non avevano fatto apposita richiesta. Dalle cappelle rambe è partita la reprimenda, secondo un itinerario già stravisto a più latitudini: cappella-lo dico alla mamma/polizia-rapporto ai superiori responsabili-telefonata a Tokyo-telefonata a Washington D.C.-superiori responsabili-cappella. Morale della favola e del gioco dell’oca (mi scuso per la battutaccia): ora, alla sera, i militi non possono bere più di una o due birre nei locali. Se ci aggiungete che la birra in questione è l’acqua di rubinetto Budwaiser, con la quale ci si sbronza solo dopo averne tracannato almeno un ettolitro, i locali ora sono deserti. I militari preferiscono rimanere dentro le basi, dove c’è tutto e forse pure si tromba di più.


Le molte attività commerciali, di conseguenza, tirano la cinghia o chiudono i battenti. Ora il grosso del movimento si è spostato a Chatan, all’American Village, dove le attività proliferano imitando in brutto le città outlet americane. A Koza non c’è rimasto un granché, se non l’inossidabile voglia di fare di Victor e i tentativi di rianimazione dell’Okinawa City International Association. In bocca al lupo, ragazzi, non staccate l’ossigeno! Spero che prima o poi Koza risorga, magari reincarnata in qualcosa di più sano, locale e a prova di lavande gastriche.