La volta scorsa dovevo
i ringraziamenti alla $uocera, stavolta li devo al governo di Naha – che ci ha
regalato i biglietti del traghetto e 5000 yen di sconto sulla camera in affitto
– e all’amica Megumi, in arte Meg, una delle fedelissime seguaci dei workshop
di pappe caserecce (ci ha ospitato, foraggiato, ingrassato, fatto scovare le
tartarughe, fotografati con le medesime, prestato le pinne e poi forse molto
altro che ora non ricordo).
Tornare a Zamami dopo
circa una decina di mesi, in piena estate (traghetto intasato di carne
randagia, alcuna pure con bello smalto ai piedi), è stata una bellissima
seconda volta. Tempo perfetto, dopo la Grande Mestruazione (il tifone spazzatutto
di alcuni giorni fa), ospitalità impagabile, menù quasi stellati o stellari,
fate voi. La prima notte l’abbiamo passata, io e Satoka, a casa di Meg. Abbiamo
conosciuto suo figlio e il suo compagno, le sue galline e la sua gatta
Katsu-chan. Per l’occasione mi sono portato da casa un pacco di gramigna all’uovo
Granarolo speditami da mamma (addio che si trova a Okinawa), e non è per
vantarmi, ma Hidehito-san, il partner di Meg, ha detto che era la pasta più
buona che aveva mangiato in mezzo secolo di vita su questa galassia (la
Granarolo sa quello che fa, non è mica pastazza turca). Hidehito-san si nutre
soprattutto di pesce, che raccatta con le proprie mani: ha il freezer stivato
di aragoste. In Europa i mafiosi russi le pagano a peso d’oro, ma a Zamami gli
indigeni non le ‘capiscono’. Dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale
– come altri posti di Okinawa, Zamami fu teatro di atrocità inaudite durante l’invasione
gringa - gli indigeni sopravvissuti, poveri in canna, si dedicarono al cibo più
semplice ed economico disponibile, perlopiù soba,
ignorando i poveri crostacei amati invece dai califani del resto del mondo.
Tra un’abboffata e l’altra
siamo pure finiti in acqua. Stavolta la spiaggia in cui di solito si possono
vedere le tartarughe sott’acqua era popolata da una mini tribù di turisti
vestiti come lapponi, per proteggersi dal sole. Mute e cappelli e guanti e
ombrelli e parafulmine. Qualche cinese vociante qua e là, li mortacci. Tutti lì
a pagaiare, per fare la traversata dello stretto fino all’isoletta
dirimpettaia. Non capirò mai perché la ggente non si basta e se fa un salto in
paradiso DEVE fare cose, sport, usare accessori, travestirsi. Fondamentalmente
spaccare il cazzo al prossimo, anziché starsene buonina a contemplare il mare
blu che più blu non si può. Per un quarto di secolo ho campato di turismo
(spacciando foto alle riviste, accompagnando gli zombie in giro pel mondo), ma
oggi, ormai sulle soglie del nazionalsocialismo domestico applicato, quasi
quasi, se mi dessero le chiavi del Tutto, mi sa tanto che il turismo lo
proibirei. Tutti a casina propria a guardare la TV. Permesso rilasciato di
trasportarsi in giro solo alle belle gnocche, ai geni ecosensibili, ai
gentleman e ai venditori di gelati.
Il secondo giorno sono
andato a caccia di tartarughe (da ammirare da lontano attraverso gli oblò della
mia maschera da palombaro) solo soletto – Satoka dormiva o si dedicava alla biru -, ma non sono riuscito a vederne
una. Eccesso di canoe con disperati sopra, I
guess. Il terzo dì, però, Meg ci ha guidati verso una distesa di coralli di
sua conoscenza – gli isolani ne sanno sempre mille di più dei gonzi di città -,
e lì ci siamo sentiti biondi e immersi in una laguna blu. Satoka non era Brooke
Shields prima che si dedicasse al tennis, però andava bene lo stesso. Abbiamo
visto due tartarughe ‘rosse’. La prima ci ha ignorato, di bolognesi
accompagnati ne deve vedere uno ogni mezz’ora. La seconda, in miniatura, si è
presa uno spavento bestia (forse ha scambiato la mia pancetta birrosa per una
barca di pescatori ammazza delfini/balene), ha innescato la quarta ed è fuggita
a razzo verso gli abissi più misteriosi. Nuotare con le tartarughe per me non
ha prezzo, in quei momenti mi dimentico pure il mal di mare del traghetto e le
cosce delle sue passeggere.
Fra una nuotata e l’altra
Meg ci ha infilato pure un barbecue con i fiocchi. Ciccie e crostacei e verdure
spettacolari alla griglia, annaffiate da birre e vini, spettacolari pure loro.
Io non sono un alcolista, non ho il fisico, per cui dopo un paio di biru rantolo a letto, ma Satoka ha una
resistenza quasi brasiliana, per cui due notti su due l’ho abbandonata alle
chiacchiere alcoliche mentre andavo a fare all’amore al cuscino. Cronache
etiliste a parte, devo dire che a distanza di dieci mesi non ho visto grandi
cambiamenti a Zamami. Ha aperto una nuova guest-house gaijin e un’altra ha messo sculture XXL, tra il buffo e il burino,
all’ingresso, per attirare clienti. La gente del posto è sempre piuttosto
burbera, come in tutte le isole del mondo. Il tifone ha fatto un po’ di danni –
per la prima volta in oltre tre anni di Okinawa ho visto ben due shisa abbattuti -, ma l’isola ha attutito
il colpo. Stavolta ho notato che qualcuno ogni tanto (ogni giorno?) cambia la
ghirlanda di fiori che decora il collo della statua del cane arrapato che
faceva su e giù dall’isola dirimpettaia a nuoto per trombare (il bello è che
gli umani non ci riescono, le correnti sono troppo forti e chi ci prova finisce
sempre con il regalare 1000 yen ben spesi al barcaiolo che lo soccorre mentre
annaspa). In pratica la statua del cane è come l’Empire State Building, che
cambia illuminazione ogni notte. Poi, per chiudere, ho scoperto che c’è un bel
business di noleggio pinne/maschere/sdrai ecc. Un nonno dà passaggi ‘gratis’
sul suo furgone (zero sorrisi, solo passaggi) se poi per immergervi noleggiate
un tubo succhiato dagli altri presso la nonna di fiducia. Forse, quando
pianterò le tende anch’io a Zamami, farò uguale (in realtà mi sa che spaccerò
Pietropappe, a me i tubi succhiati degli altri non sono mai piaciuti un
granché).