venerdì 22 marzo 2013

KARATE, L’ARTE DELLA ‘MANO VUOTA’



Il Regno di Ryūkyū, in passato, occupava l’arcipelago di Okinawa a partire dall’isola di Yonaguni. Nel XIV secolo ebbe un forte impulso dovuto al fiorire del commercio e ai rapporti di vassallaggio con la Cina. Nel Seicento un bando decretò il divieto per la popolazione di possedere armi. Fu così che nacque una tecnica di difesa personale a mani nude o con diversi strumenti, come bastoni o attrezzi agricoli. Tali tecniche di combattimento giunsero dalla Cina e si diffusero velocemente, trovando terreno fertile anche tra i nobili che ne divennero i principali conoscitori e cultori. Con il tempo e il cambiare della situazione politica l’arte ‘della mano vuota’ divenne sempre più raffinata e si scompose in diverse discipline. Alla fine del Medioevo nipponico, e con l’annessione del Regno di Ryūkyū al Giappone nel 1879, anno in cui fu istituita la Prefettura di Okinawa, i giovani locali coinvolti nelle campagne di reclutamento si distinsero per la prestanza fisica e la buona salute. Fu così che il Tode, ossia il karate, venne riconosciuto quale disciplina utile da inserire nei programmi scolastici. Nei primi del Novecento iniziarono a nascere i dojo, ‘palestre’ che videro un rapido declino durante la Seconda guerra mondiale, con il Giappone sotto le bombe degli Alleati. Durante la guerra del Vietnam molti militari statunitensi stanziati a Okinawa appresero il karate, esportandolo in seguito in America.




Il karate, secondo me
Oggi il karate di Okinawa è considerato il più puro che esista, ma ogni sensei (maestro) ha il proprio stile, variabile da dojo a dojo. Alcuni maestri, ormai anziani, sono vere istituzioni e autorità di Okinawa, rispettati come semi-dèi. I dojo di Morio Higaonna (il principale nel quartiere di Tsuboya, a Naha), 10° dan, sono molto ambiti dagli atleti di mezzo mondo, ma non è facile accedervi. Ogni sensei serio seleziona con estrema attenzione i propri studenti, in base alle loro esigenze e alla scuola in cui si è formato. I turisti ‘karateggianti’ di passaggio, hobbisti, si trovano le porte chiuse in faccia. Molti dojo accettano studenti stranieri solo se questi sono già a$$ociati alle relative ‘filiali’ straniere. Avere accesso a un dojo a Okinawa, se si è stranieri e si visita l’isola per la prima volta senza agganci a filiali estere è, di solito, estremamente difficile, se non addirittura impossibile. Se troverete un dojo che vi accoglie dopo un semplice bussare alla porta, senza referenze o pre-appartenenza alla medesima scuola, potete essere certi di una cosa: vi siete imbattuti in un dojo smaccatamente commerciale, che bada soprattutto al fatturato e poco o nulla alla qualità dell’insegnamento.












Qualche tempo fa, un amico karateka visitò il dojo di un maestro famoso che insegna nel cuore di Naha. Il maestro gli chiese quale tipo di karate praticasse, e alla sua risposta ‘Shōtōkan’ il maestro lo rispedì al mittente, con un certo disgusto stampato sul volto. Per lui lo Shotokan era cosa da ballerine di danza classica. Personalmente praticai lo Shotokan per un lustro nei primi anni Ottanta, e lo ricordo piuttosto diverso dal balletto. Allora, in Italia, quello era l’unico tipo di karate praticato, esportato dal maestro Shirai e insegnato a Bologna a partire dagli anni Settanta da Ferdinando Balzarro. A Okinawa, però, lo Shotokan è visto quasi da tutti i maestri come una disciplina ‘deviata’ - per mano del maestro Funakoshi, che esportò il karate di Okinawa in Giappone trasformandolo; da lì si diffuse nel resto del mondo -, dunque disprezzato, ignorato o denigrato. Praticamente è impossibile, oggi, trovare un dojo a Okinawa dove si pratichi lo Shotokan (se lo trovate, per favore, fatemelo sapere: corro a iscrivermi).



Nei dojo di Okinawa ogni sensei è orgoglioso del proprio stile e, spesso, come in Italia, geloso dei maestri concorrenti. In Italia il mondo del karate è una specie di grande condominio litigioso, amministratore fuggito da tempo, dove troppi maestri dedicano grandi quantità di tempo ed energia a sparlare dei colleghi e a dichiarare il proprio primato - in termini di purezza delle tecniche - rispetto ai colleghi. Ogni associazione italiana, così come i partiti politici - dev’essere a causa del nostro DNA derivato dagli antichi gladiatori -, è destinata prima o poi a frantumarsi in sotto-associazioni. Scisma dopo scisma, il karate si trasforma. Da una parte della barricata i maestri che tentano, a volte automaticamente (senza chiedersi troppi perché), di reiterare gli insegnamenti delle radici, dei maestri fondatori della disciplina. Il colpo tal-dei-tali va fatto con la mano inclinata a 45°, guai se la inclini di 46… Altri maestri, forse più interessati a indagare l’effettiva efficacia delle tecniche, cambiano le suddette, le trasformano, le personalizzano. Durante questo processo, ovvio, si scatenano le guerre… Poi, c’è il vero veleno: l’ego. Alcuni maestri si legano a una scuola okinawense, ne acquisiscono (a volte comprano) il ‘bollino’ di appartenenza e da lì, al volo, ne fanno una bandiera di supremazia e unicità. Solo loro sono i detentori della Verità, tutti gli altri dei sottodotati, hobbisti della domenica dopo la messa. Se c’è una cosa che imparai, durante i miei antichi cinque anni di Shotokan, fu l’umiltà, base del karate insegnato da Funakoshi. Nello Shotokan insegnatomi da ‘Nando’ Balzarro e da Enrico Ferraro, imparai a (1) difendermi e (2) dare una seria limata alla mia arroganza (non necessariamente in questo ordine). A vedere gran parte dei dojo sparsi per il mondo, oggi, temo che questa pietra fondamentale del grande maestro ‘esportatore’ si sia persa, o frantumata, lungo il cammino della storia.






















A Okinawa, nonostante si pensi il contrario, succede esattamente la stessa cosa. Anche qui esistono i condomini incandescenti. La grande differenza, rispetto al ‘Bel Paese’, è che i giapponesi sono maestri nel non dichiarare apertamente ciò che pensano del vicino di gomito. Se in Italia vige la cinghialaia da bancarella di mercato del pesce (maestri che bannano ex-‘amici' da Facebook o che si insultano l’un l’altro sui social media), a Okinawa vige il sorriso di circostanza. Sorriso pericolosissimo - per chi lo sa interpretare -, a volte peggio di un’aperta dichiarazione di guerra. Da qui la falsa immagine che si ha, in Italia - da lontano le cose sembrano sempre idilliache -, di un unicum okinawense in cui tutti i maestri, seppur di scuole diverse, si amino e appartengano a una comunità compatta. Qui, come là, la gara per chi ha il dan (livello di esperienza, cintura) più alto (lungo?), è acerrima. Le chiacchiere dietro le spalle, magari davanti a un bicchiere di awamori a fine lezione, si sprecano. Ovviamente, come in tutto, esistono le famose eccezioni che confermano la regola: sensei puri, di buon spirito, interessati ad approfondire la disciplina ma privi di ego. Una rarità, ma se sarete fortunati e testardi li troverete. Un giorno, se qualche folle mai mi pagasse per farlo, mi piacerebbe poter scrivere un libro sul dietro-le-quinte del mondo del karate okinawense, sarebbe un’enciclopedia del gossip peggio (meglio?) di un’intera annata di Chi. Se mai mi venisse la malinconia di scriverla, però, forse è meglio che prima mi trasferisca.

 

 










Karateka italiani in visita a Okinawa, vi serve un fotografo durante il vostro allenamento?
Conosco una persona che fa per voi...
pietroscozzari@gmail.com


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