mercoledì 24 luglio 2013

DUE O TRE COSE DI OKINAWA (CHE MI STANNO SUL CAZZO)



Non vorrei che i seguaci di ‘Un italiano a Okinawa’, leggendo le mie cronache dal fonte, pensassero che Okinawa sia il Paradiso in Terra (se così fosse rischierei di trovarmeli tutti qui, un giorno; e se uno scappa dall’Italia avrà pure i suoi sacrosanti motivi, no?). Vorrei dunque fare un breve elenco delle cose che non mi piacciono, qui. Quasi tutte, in qualche modo, legate all’eredità culturale dalla troppo vicina Cina (Taiwan, per essere precisi; la moderna Taiwan, però, è mediamente MOLTO più educata della madrepatria). Inciso: la prima volta che sono arrivato in Giappone, oltre due anni fa, l’ho fatto in aereo, sbarcando a Fukuoka. Provenivo da Shanghai. Avevo passato sette settimane vissute pericolosamente in Cina, trascorse a scansare gente che mi fumava in faccia, che mi prendeva a schiaffi a suon di alitate all’aglio in metropolitana, che mi tagliava sempre la fila (in ascensore, alla cassa dei negozi, entrando nel vagone della metro, alla reception dell’albergo, al check-in in aeroporto, dovunque), che cercava di piallarmi sull’asfalto mentre attraversavo una strada sulle strisce pedonali o mentre camminavo su un marciapiedi, che mi voleva dare da mangiare spezzatino di cane con contorno di gatto, che mi scaracchiava sulle scarpe, che mi urlava nelle orecchie anziché parlarmi, che deflagrava l’etere a me circostante parlando de li cazzi sua al telefono, che sbatteva le porte delle camere di fianco alla mia come se dovesse chiudere i portoni della Città Proibita all’arrivo dei maoisti. Maoisti che, nel costruire la Cina comunista, devo aver senz’altro considerato l’educazione di base tra gli umani una cosa per checche occidentali. Inutile, anzi, antiproduttiva (fa perdere tempo) nell’ottica della Crescita del Paese.




Arrivato a Fukuoka, viaggiavo a un metro d’altezza dal suolo. Nessuno mi urlava/ruttava/scoreggiava in faccia, le auto si fermavano ai semafori e davanti alle strisce pedonali. La metropolitana odorava di ossigeno, non di ortofrutta. I pedoni facevano la fila sul marciapiedi prima di attraversare la strada, nessuno mi spingeva sotto l’autobus. Il silenzio dominava. Ero in Paradiso. Ricordo che a un compagnuccio di ostello rilasciai una dichiarazione per me inedita: “Sono da quindici giorni in questo Paese e non sono ancora incappato in una rottura di cazzo. Forse sto sognando?”. Non mi era mai capitato prima, ero sorpreso di me stesso. Dovunque fossi andato, a partire dall’Italia, oggi in fondo una Cina in scala ridotta, c’era sempre stato qualche fattore di disturbo, concentratosi all’altezza dell’inguine, entro le prime 24 ore dal mio arrivo. Sono scosso, lo so, ma un quarto di secolo passato a viaggiare tra le scimmie oggi mi ha spinto verso una specie di nazismo condominiale, per cui non sopporto più la libertà degli altri, quando questa si trasforma in attentato terroristico alla mia quiete (by the way: io cerco SEMPRE di non stracciare l’anima agli altri). Che mi stia reincarnando in un leghista? Speriamo di no.


Dal generale al particolare, torniamo a Okinawa. L’arcipelago, dal resto dei giapponesi, è un po’ considerato la ‘Sicilia’ locale. Abitato da gente un po’ troppo rilassata, che arriva in ritardo, più rumorosetta e maraglia degli abitanti della ‘mainland’. In effetti ciò è vero, ma va rapportato alla media, rigidissima, del resto del Giappone. Per un abitante di Tokyo cinque minuti di ritardo sono un crimine sociale, per un bolognese non sono ritardo, per un abitante di Okinawa sono un secondo di ritardo. La rigidità della mainland, dunque, per fortuna rimane sulla mainland, anche se qui a Okinawa molti ‘nordisti’ importati fanno fatica, alla lunga, ad accettare la rilassatezza degli indigeni. Rilassatezza che amo, essendomi fatto le ossa in Brasile e non a Stokkarda. Rilassatezza che, però, quando sbraca, rompe l’anima. Tipo quella della famiglia che vive sotto di me. Sembrano giostrai di Enna. Figli: innumerevoli. Collezione di immondizie all’ingresso di casa. Un cane tenuto sempre alla catena e ricoperto da dermatiti. Ma, si sa, è il concetto stesso di ‘vicino’ (di casa) che andrebbe abolito dall’universo, al di là del numero di sacchi di immondizie che usa per decorare il proprio (e il mio) habitat.


Ok, ora non vorrei passare per l’ennesimo cristiano che si lamenta del vicinato buzzurro, dunque cerchiamo di essere più filosofi astratti, parlando di categorie (anonime, prive di facciazze e di indirizzi) umane scassacazzi qui a Okinawa. Il nemico numero uno, senz’altro, è il cinghio-facocero scatarratore. Da bravi eredi dei cinesi, nonostante le molte proclamazioni di superiorità, troppi uomini di Okinawa hanno le vie respiratorie intasate dal catarro. Sarà la vecchiaia, sarà l’aria di mare, oppure sarà l’indomita caratteristica dei giapponesi in generale che non usano i fazzoletti per soffiarsi naso e polmoni (è ritenuta una pratica incivile; tirare il muco su per il naso ogni tre secondi, con tutto il baccano che ne consegue, a volte corroborato da raschi e rimescolii di gola, invece, è nella norma), ma qui le scaracchiate sono deflagranti. 



Un mio vicino di casa (scusatemi, l’ho rifatto, dall’universale al particolare, non ho saputo resistere), credo pazzo - esce di casa solo di notte per fare la spesa -, si è beccato, indovinate da chi, il soprannome di Agu-san (agu è il saporitissimo maiale di Okinawa) grazie alla sua pratica costante delle pulizie in gola. Pulizie fatte purtroppo non solo a pasqua, ma quarto d’ora, con sonori echi dal suo bagno. Ogni mattina appena sveglio e prima di ogni pasto i sapori della mia colazione/pranzo/cena sono accompagnati dal suo sottofondo musicale che stimola un pieno apprezzamento del cibo. Da un po’ di tempo ho preso a imitarlo e fargli eco, ma temo che sia inutile. Il ritmo dei suoi scaracchi non è cambiato di una virgola.


Altra cinesata di importazione di cui avrei fatto volentieri a meno è quella del fumo di sigaretta sempre dovunque comunque. Lungo Kokusai-dōri (la strada dello shopping e dei turisti, qui a Naha) e in alcune vie limitrofe ogni tanto circolano, vigili e nazi, alcuni ‘controllori’ dei polmoni della collettività (specie di ronde padane/pensionati sbirri con un giubbottino giallo, pronti a cazziarti se osi fumare una sigaretta su quei marciapiedi). In molti ristoranti, soprattutto quelli economici e strapopolari, i clienti possono fumare tranquillamente, pratica che cozza di brutto contro il mio katsudon quotidiano. Questo andazzo, per fortuna, sta lentamente cambiando, e in molti ristoranti, soprattutto se fighetti e costosetti (quelli che non frequento mai, per carenza di mezzi), i barbari vengono spinti in strada a impestare la porta d’ingresso.


Ho smesso di bere superalcolici dalle feste dei sedici anni, non mi spingo mai più in là di un bicchiere di vino o di una birra, perché poi mi viene sonno. Dunque trovo incomprensibile il bere fino a dimenticarsi il nome della propria madre, prerogativa di molti uomini di Okinawa (e di tutto il Giappone). Ogni tanto all’uscita dei sakè-bar escono zombie barcollanti che non riescono a tornare a casa e finiscono a dormire sul primo mattone in cui inciampano. Occasionalmente qualcuno finisce sotto le ruote di un’auto (le uniche vittime a Naha), avendo scambiato l’asfalto per un materasso. Piaga non necessariamente di origine cinese.


Pure non solo cinese – anche molto giapponese e coreana -, è la pratica del rumoroso risucchio dei noodles – qui soba, udon, ramen – mentre si mangia. Potrò vivere in questo angolo del mondo per cent’anni, non riuscirò mai a farla mia. Anche di fronte a un piatto di soba rovente. È più forte di me, l’educazione che ho ricevuto dalle orsoline mi impone il silenzio mentre mastico, altrimenti ‘masticare’ sarebbe parlare/risucchiare/biascicare, e per me la lingua italiana e i suoi distinguo sono importanti. Quando vado in una succhiatoria di soba provo a far finta di niente, se la TV è accesa mi concentro su quello che trasmette il convento, facendo finta di non sentire le bocche da serva, anche se di veneri, che mi circondano.


E, per concludere questo manifesto anticinese (mi piace continuare la tradizione: quando sono passato dall’aeroporto di Pechino, un paio di mesi fa, ho scoperto che non solo Fèssbokk era inaccessibile, ma pure il mio blog Pietro Times, il quale contiene un paio di chicche sulle macellerie di cani - http://pietrotimes.blogspot.jp/2011/11/cina-cani-merenda.html - e sulla buona educazione cinese - http://pietrotimes.blogspot.jp/2011/10/cina-il-paese-gentile.html): in estate, se possibile, schivo Kokusai-dōri, per due motivi. Il primo è quello che segue la scuola del mio amico bolognese Andrea: “Non vado più in piazza Maggiore, c’è troppa figa. Poi ci sto male, meglio stare in periferia e non vedere”. Il secondo è che, in questo caldo periodo, la zona del turismo è invasa da urlatori cini. Non riesco ad arrivare a fine ramen, quando di fianco mi si è piazzata una famiglia cinese in vacanza. Mi si chiude lo stomaco e i noodles mi si bloccano dalle parti del pomo d’Adamo. Per tornare da quelle parti aspetto la fine di settembre, quando lo sciame è tornato a casina sua a masticare teste d’aglio.


P.S.: Quasi dimenticavo! Per essere obiettivi, e non apparire incarognito solo con i cinesi. Cha minchia ci fanno, qui, tutti ‘sti militari americani??



Nessun commento:

Posta un commento