Oggi sono andato lungo
Kokusai-dōri, la lunga via dello shopping e del turismo cazzone nel cuore di
Naha. Ogni domenica pomeriggio viene pedonalizzata dalle 2 alle 6, ma oggi era
una giornata particolare: vi si è tenuto, scusatemi la bestemmia, il red carpet dell’Okinawa Film Festival.
Il festival è stato
clonato nell’arcipelago dai gironi superiori (Tokyo, Yokohama) qualche anno fa
per stimolare il turismo. Un po’ come le nostre città di provincia che cercano
di copiare Hollywood, Cannes, Venezia o Berlino, anche Okinawa, da brava
campagnola, si è costruita il suo festivaletto fra Naha e Ginowan. Di
conseguenza in questi giorni la città è stata presa d’assalto da villici con
Alte Ambizioni Artistiche e, purtroppo, con tutte le puzze sotto il naso, gli
abiti da circo e le ruote da pavoni classiche di queste circostanze che tutti
conosciamo. Amo Okinawa e la sua gente per la sua semplicità, ma quando mi
trovo davanti a spettacoli di questo genere, perlopiù a base di sfiga importata
dalla capitale, mi si innervosiscono le ginocchia.
A Naha, in pratica, non
arrivano gli attoroni della serie A, ma quelli dalla B alla D, con una
vastissima preponderanza dei divetti della TV, i ‘tarento’ (‘talenti’, in quanto ‘superiori’ alla massa in qualcosa,
tipo tingersi i capelli di viola o strabuzzare gli occhi più dell’impiegato
medio) e robe così. Noti ai chi si strafa di televisione, ignoti a me che non l’ho
e che se i suoceri me la regalano corro a venderla al negozio di usato sotto
casa.
Il tappetazzo rosso è
stato disposto lungo il tratto di Kokusai-dōri che di solito viene
pedonalizzato, quello che si trova davanti a Starbucks e alle sue zoccole a
caccia di rambi travestite da innocenti consumatrici di caffè di superultima (e
di rambi a caccia di zoccole). La calca si affollava e sudava, per cui sono
andato ad appostarmi nello sfintere dell’evento, davanti ai tendoni dove l’attorame
stava all’ombra in attesa del proprio momento di gloria (la sfilata della
sfiga). Ottimo punto per paparazzare e fare, tutta per me (ma anche un po’ per
voi), una rapida analisi antropologica delle deviazioni umane, file ‘Vanità’,
con un fuoco incentrato soprattutto sulle dev. um. giapponesi.
In effetti all’orgia di
volti noti (agli altri, io non ne conoscevo manco uno) ho potuto godermi un
campionario pressoché completo di umanità che non frequento tutti i giorni. Zoccole
in pelliccia e machos stagionati con i capelli tinti, studentesse liceali in
calore per qualche cretino stratardopunk e obese con cartelli autoprodotti zeppi
di cuoricini destinati all’eroe che mai farà loro alcun complimento alle loro salsicce,
samurai postmoderni e pupazzi ripieni di gente, che qui non piacciono solo ai
piccini ma anche molto agli adulti con svariati accessori piccini.
Ho fotografato di tutto
un po’, la merce era oro, in pratica. C’era pure un’attricetta americana almeno
sessantanovenne travestita da ggiovane, un gran brutto spettacolo di ciò che l’incedere
dell’età, la fèscion di ultima e la
sfiga di essere nati negli Stati Uniti possono regalare all’essere umano. L’unico
che ho riconosciuto nel pueblo era
uno spilungone neozelandese che so insegnare l’inglese, finito lì, tra i VIP,
solo God sa perché. Anche lui, mentre
marciava sulla moquette rossa, faceva ciao con la manina. Mi sa che da quando l’ho
incrociato qualche mese fa, e mi ha detto di fare il maestro, ha fatto
carriera.
A mezzogiorno in punto è
iniziata la sfilata, orchestrata con un’alternanza di attorini da box (quelli
sotto il tendone che fotografavo senza alcuna pietà) ad attorazzi da auto
sborona. Lungo il braccio destro della strada hanno iniziato ad arrivare
automobili da magnate del petrolio modenese cariche di faccette da culo famose
ai più. I più, come ne riconoscevano le creste in testa, il giubbottino di
riferimento, la tintura dei capelli o le faccette di qualche scemeggiato,
emettevano urletti di calore e approvazione, specie di micro-orgasmi da
riconoscimento del famoso. Per carità, non pensiate nemmeno per un secondo che
voglia sfottere i giapponesi paragonandoli ai ‘migliori’ italiani. Lo scorso 25
aprile ero davanti al Vittoriano a Roma e il popolo bue faceva a gomitate per
riconoscere per primo i politici di turno venuti a onorare la Patria. Ogni
paese, è noto, ha le sfighe che si merita.
Tutta la kermesse della
stracippa era organizzata al micron misurato da un esercito di sbirri in divisa
e da organizzatori in divisa pure loro. L’uniforme di questi ultimi erano completini
con giacchette e scarpe a punta cappellare. Vorrei avere l’1% di quanto quegli
omarini spendono al mese dal parrucchiere e sarei miliardario (non mi addentro
nel fatturato delle parrucchiere che si occupano delle loro signore, non vorrei
passare per uno che ce l’ha con le quote rosa). Tutti con un’aria treeeeeemendamente
indaffarata e cool, fra auricolari e
sguardi nervosi al programma stampato. La
sopravvivenza dell’universo dipende da me, ma non temete, ragazzi: ho tutto sotto
controllo. Alcuni di questi modelli mancati lottavano contro il nemico dell’Asia,
il cattivissimo sole. Si proteggevano le costose criniere griffate con
cartelline e manine, ma poco potevano contro i perfidi raggi. Oggi mia moglie
mi ha raccontato di aver sentito l’intervento di un ascoltatore alla radio. Guidava
e quando ha svoltato a un incrocio ha tirato su la mano per proteggersi la
tempia dal raggio laser del pianeta nemico. In quel momento ha incrociato un’auto
della polizia, che prontamente gli ha risposto al saluto, attraverso il
parabrezza… È roba vera, non me la sono inventata.
Ho retto a tutto ‘sto
popò di spettacolo per un’interminabile ora, e mi sono pure abbronzato, poi
sono fuggito a mangiare polli arrosto. Volevo dimenticare. Lungo la via della
fuga ho visto una fila chilometrica, inusuale, davanti a Sakurazaka, il cinema
d’essai invischiato con il festival. È l’unico cinema che frequento, anche se
di film belli ne fa uno ogni prepensionamento di papa. Gli altri ti (mi)
ammazzano di sbadigli. Poi, mentre addentavo le fauci nel povero pollo, ho
pensato che mi divertivo più da adolescemo, quando verso i tredici anni andavo
alla Festa del Latte a Granarolo dell’Emilia. Festa paesana hardcore, c’erano
le mucche, maragli veracissimi con il Ciao
e le espadrillas, e i proprietari
delle signore vacche ti regalavano un po’ di latte. Se eri dio, in quella
circostanza trombavi una contadina della tua età fra due balle di fieno, ma io
non ero nemmeno chierichetto. Quello sì, che era contado autentico, anni
Settanta al loro meglio. Altro che la contadinata di oggi, triste clone di
altre galassie già viste e straviste. Perché la ggente, anziché fare i festival
del cinema, non si dedica a cose più utili per l’umanità, tipo imparare a non
scuocere la pasta o farci conoscere le loro sorelle?