Ieri alle dieci del
mattino ero a Shuri, nella parte alta e ‘nobile’ di Naha, il menù della
giornata era troppo ricco per non esserci. Su dritta dell’amica Tomomi ho
stanato la chiesa di Shiri (Shiri a Shuri…) e, come facevo quando avevo
diciott’anni a Londra, mi sono buttato in un mercatino di beneficenza. Il
reparto piatti era il più appetitoso (quello dell’abbigliamento aveva solo
pigiami da nonne), con figate assortite dai prezzi vertiginosi: dai 10 ai 20
yen, più o meno il prezzo di una caramella per piatti e tazze spettacolari.
L’orgia sarebbe dovuta iniziare ufficialmente alle 12, ma alle 11,15 le oba-chan, le dai-cinquanta-in-su,
scalpitavano come tori nell’arena. A alle 11,16 hanno travolto il tipo che si
faceva il viaggio dell’organizzatore/controllore del traffico, un’entità
imprescindibile alle feste giapponesi, e si sono avventate sulle ceramiche
giustamente sfanculandolo. Dopo un secondo di timida incertezza mi sono avventato
pure io, dando esempio di Scuola Italiana (come camminare sui piatti senza
romperli). Bottino ricco, ora ho la mensola in cucina che traballa, tanto è
carica. Tomomi ha portato a casa settecento piatti, fra cui due chicche
pregiatissime (da queste parti): un piatto con Gesù Cristo nella Sua forma più
smagliante e uno con la Sua mamma, smagliante pur’Ella. Qualche spacciatore di
oggetti sacri si è preso la santa briga di scrivere sul retro dei piatti che
NON andrebbero usati per mangiarci sopra/dentro, io ovviamente a cena ho fatto
questione di inaugurali a suon di insalatine con tanto bell’aceto balsamico
nero. Sul cammino della lotta per il piatto a prezzo politico sono inciampato
in una coreana, giovane e caruccia, che mi ha fatto pure fare un paio di
pensierini poco cristiani, se non fosse che poi, come tutte le coreane, si nutre
di gesucristi e kimchi, dunque sono
scappato a gambe levate. Per riprendermi dalle fatiche dello shopping mi sono
scofanato un ottimo riso al curry preparato con le manine di una
nippo-argentina. La diega era simpatica e le ho appioppato un volantino del mio
workshop di cucina, così forse amplierà i suoi orizzonti. Come dolcetto ho
preso un tiramisù preparato dalle oba-chan
della parrocchia. A dire il vero stava al tiramisù come io sto a Goldrake, però
era buono. Sul fondo aveva un Oreo, uno di quei biscottini neri con la crema
bianca in mezzo che a New York vendono FRITTI. Lo sapete che ‘Oreo’ è il
perfido nomignolo dato agli afro-americani che amano i bianchi (fidanze, gusti
WASP, sbiancarsi tipo Michael Jackson, polo Fred Perry, robe così)?
Dopo lo shopping sono
passato all’evento più importante della giornata, almeno secondo l’ufficialità:
la sfilata in costume per rivivere l’atmosfera della Corte Reale di Ryukyu, l’Okinawa
che fu. Non so a voi, ma a me le sfilate in costume stanno profondissimamente
sul cazzo. Non perché ce l’abbia con i travestiti, ma perché questi ultimi,
quando giocano alla Storia, lo fanno sempre con una noia immane stampata sui
volti. Manco li pagassero per impersonare il passato. A Okinawa come in tutti i
comuni italiani, puttané medievaleggianti in primis. Il bello è che qui c’è un concorso
serissimo per ambiziosi aspirati al ruolo di re e di regina. Chissà se il re di
Ryukyu si annoiava tanto quanto il re di ieri. Fatto sta che quando la
processione è partita dal castello di Shuri mi è pure partita una sbadigliarola
poco in linea con il contegno da mantenere di fronte a una Corte Reale. Mi
hanno tenuto sveglio solo la pioggerella stracciacippa - che si è data da fare
esattamente nel momento in cui la Corte usciva dal castello - e i nasi fan-ta-sti-ci
di alcune comparse. Nasi veri, che hanno accompagnato le barbe e i baffi
fintissimi di alcuni cortigiani. Qua e là qualche gaijin che giocava all’indigeno, gioco a cui io mai parteciperò,
manco dovessi finire i miei giorni a Okinawa.
La festa vera era
quella in strada, fra tamburi taiko
ed Eisa, bancarelle con cibo ammazza
fegato e giocattoli fantastici per i più piccoli. Qua e là sono spuntate
studentesse in uniforme armate di cartelli ‘English
translate volunteer’ (che, a voler essere pignoletti, dovrebbe essere ‘English translation volunteer’), giovani
volontarie disponibili a spiegare i vari perché del tutto ai turisti stranieri.
Decisamente un passo in avanti, rispetto a tante altre feste popolari, nel
Giappone anglo-privo.
Il momento più bello della festa, però, a mio insindacabile parere, è stato quello organizzato dall’Università d’Arte. Fucina di giovani talenti, dalla pittura alla scultura, passando per la musica e per… molta gnocca. Sì, devo sottolinearlo: da che il tempo è tempo e l’uomo è uomo, non so perché, ma ‘arte’ fa rima con ‘figa’, anche se questa non è una rima baciatissima. Ieri a Shuri si son viste delle gran belle brutte cose, di quelle che fanno male alle ginocchia quando le incroci. Ma questa non è la cronaca dell’Osteria n°7, per cui mi limiterò all’ufficialità. Vi basti sapere che alla Facoltà d’Arte si è visto di tutto un po’, e quest’ultimo po’ era tutto meravigliosamente genuino, casereccio, non prefabbricato. In ordine sparso: performance post-Halloween di adoni locali travestiti da cappuccette rosse; dipinti matti (una spettacolare ‘Ultima cena’ disegnata con il gesso su una lavagna, in versione manga); sculture pure folli, la mia preferita raffigurante una sfilza graficissima di mammelle dal nome Pai-chan (‘pai’ significa seno, ‘chan’ è un suffisso che si appiccica ai nomi di amichette o di bimbi particolarmente carini); danza tradizionale di Okinawa accompagnata da musica balinese; last but not least, un concerto di pianoforte totalmente fuori dagli schemi, con interruzioni in manga-style. All’uscita dall’università, a sole tramontato, gruppi di hip-hop e rap scatenato hanno dato il meglio di sé lungo la strada principale di Shuri. Nel nome del massimo champuru, parola di Okinawa che esprime la forte mescolanza – di stili, di ingredienti, di tutto - dell’arcipelago, quasi fino a diventarne bandiera filosofica.
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