Più o meno nell’ano di
Okinawa City pulsa – o meglio, pulsava – un sobborgo cresciuto a immagine e
somiglianza dei rambo in libera uscita. Si tratta di una ‘cosa’, più di una
città vera e propria, dunque ‘Koza’, in giapponese molto libero. La ridente
periferia americana in miniatura si è sviluppata, nel tempo, attorno al tubo di
scappamento, il cancello, di una grande base militare americana. Come tutti i
tubi di scappamento, ha visto i suoi alti e bassi. Uno degli alti che purtroppo
mi sono perso fu nel 1970, quando gli indigeni, definitivamente rottisi nei
coglioni per la presenza gringa, in una notte di buon sakè diedero alle fiamme
le auto degli occupanti armati. Momento storico, anche perché poi non si è
ripetuto, nonostante la collection di
stupri e sbronze stronze in libera uscita a seguire. Le foto di quella notte di
fuochi non fatui sono tutto ciò che rimane dell’unica, seria presa di posizione
degli abitanti del luogo, poi abituatisi passivamente ad aprire silenziosamente
le natiche e lasciar fare agli ufficiali poco gentiluomi. Il sakè che si faceva
negli anni Settanta, purtroppo, non circola più.
Koza ha avuto periodi
di gloria economica che hanno attirato mini-eserciti di immigrati, venuti ad
abbeverarsi alla fonte del Dio Dollaro: filippini (soprattutto filippine,
impiegate indovinate in quali sante istituzioni), peruviani, indiani e altri –ni assortiti. Lungo la strada
principale del postaccio, quella che esce direttamente dal tubo di scappamento,
sono cresciuti barazzi e barbieri hip-hop, boutique di alta moda pachistana e
spacciatori legalizzati di alimenti monsanti. Tutto molto chiassoso e colorato,
soprattutto di notte e nei fine settimana. I locali alternano cartelli del tipo
‘U.S. troops welcome’ ad altri ‘NO U.S. military allowed inside’, variabili
forse a seconda del numero di sorelline stuprate che il proprietario ha.
Una via parallela alla
principale ha imitato i portici bolognesi e si è arricchita con negozietti assortiti,
fra cui quello del mitico Victor, un indiano qui dalla notte dei tempi. Nel suo
rifornito negozio, praticamente una succursale dell’India, si può trovare tutto
ciò che quel benedetto Paese ha da offrire (a parte gli stupratori di turiste),
dalle polverine magiche per fare mille e un curry ai sari per tutte, o quasi,
le occasioni. Poco più in là c’è il punto di spaccio di American Pizzaman, di proprietà di un modestissimo e umilissimo
sfamatore che si pregia dell’auto-titolo di ‘Best pizza in Japan”. Altre poco stimate aziende nei dintorni – dal
fotografo che immortala i gringhi travestiti da antico giapponese ai ‘ristoranti’
italiani dove è consigliabile entrare solo dopo aver stipulato una buona
assicurazione sanitaria -, ma a Koza la qualità è un dettaglio per europei
effeminati, di scarso interesse per i più.
In una via
pedonalizzata, che porta alla galleria commerciale del cuore di Koza, ci sono
bei murales con gatti e qualche chicca davvero buona. Prima fra tutte il
piccolo ma interessantissimo museo dedicato al periodo della guerra e
all’occupazione – fisica e culturale –americana. Il locale sa di casereccio,
cartelli scritti a mano e formulario per i commenti in solo giapponese, però
proprio per questo è più succoso. Passo lì dentro mezza giornata ogni volta che
ci passo, tante sono le figate esposte. Juke-box da balera nippo-gringa, foto
d’antiquariato, giocattoli vintage e resti di bombe, vecchie macchine per
cucire e taniche per il carburante da cucina, fumetti antichi e gadget da
giocatore di baseball. Una sezione fotografica è dedicata alla rivolta di
strada del ’70, un’altra al contingente afro-americano.
Il piccolo museo è a
due passi dall’Okinawa City International
Association, un’organizzazione che cerca di mantenere Koza culturalmente
viva, aiutando gli immigrati con lezioni gratuite di giapponese e organizzando
eventi. Nei prossimi mesi vi dovrei tenere un’italianata e sto cercando di
radunare i quattro girolami residenti a Okinawa per capire che cosa fare, ma da
bravi italiani ognuno si fa i fatti propri e dunque mi sa che alla fine sarò
solo io a sventolare tricolore e tagliatelle.
Nella galleria
commerciale sopravvivono negozietti di natura varia. Alcuni vendono ciarpame
americano usato. C’è pure un piccolo studio in cui si insegna ai bambini a
scimmiottare le mossette da hip-hopper
del Bronx, come da migliore cultura samurai… L’immigrazione, però, ha anche i
suoi lati positivi. Vicino alla galleria c’è il ristorante peruviano Titicaca dove si godono ottime pappe a
prezzi popolari (ma attenti allo stramaledetto coriandolo e alla velenosa Inka
Cola!) e una chicha di prima scelta.
Poco più in là c’è un ottimo ristorante taiwanese con arredamento più unico che
raro, e per chi piacciono i piatti trisunti non mancano le mangiatoie
filippine.
Negli ultimi tempi,
però, Koza ha avuto un tracollo, trasformandosi in una città semideserta. I
militari in libera uscita avevano preso a infilare le cappelle a destra e a
manca, soprattutto dopo qualche bevuta di troppo e anche nelle cavità delle
fanciulle che non avevano fatto apposita richiesta. Dalle cappelle rambe è
partita la reprimenda, secondo un itinerario già stravisto a più latitudini:
cappella-lo dico alla mamma/polizia-rapporto ai superiori
responsabili-telefonata a Tokyo-telefonata a Washington D.C.-superiori
responsabili-cappella. Morale della favola e del gioco dell’oca (mi scuso per
la battutaccia): ora, alla sera, i militi non possono bere più di una o due
birre nei locali. Se ci aggiungete che la birra in questione è l’acqua di
rubinetto Budwaiser, con la quale ci si sbronza solo dopo averne tracannato
almeno un ettolitro, i locali ora sono deserti. I militari preferiscono
rimanere dentro le basi, dove c’è tutto e forse pure si tromba di più.
Le molte attività
commerciali, di conseguenza, tirano la cinghia o chiudono i battenti. Ora il
grosso del movimento si è spostato a Chatan, all’American Village, dove le
attività proliferano imitando in brutto le città outlet americane. A Koza non c’è
rimasto un granché, se non l’inossidabile voglia di fare di Victor e i tentativi
di rianimazione dell’Okinawa City
International Association. In bocca al lupo, ragazzi, non staccate l’ossigeno!
Spero che prima o poi Koza risorga, magari reincarnata in qualcosa di più sano,
locale e a prova di lavande gastriche.
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