Dopo aver speso circa
120 euro in pappe pregiate (pasta De Cecco e di Gragnano, olio d’oliva fatto
con le olive, concentrato di pomodoro Mutti sempre-sia-laudato, olive e
pomodori secchi e uvetta turchi, passata di pomodoro e pelati veraci, aceto
balsamico e Lambrusco di Mùdna, parmigiano Zanetti e Gorgonzola
non-ricordo-l’autore, questo e MOLTO altro) da Kaldi, il mio pusher di fiducia
(una catena di negozi specializzata in caffè, ma che ha un bel magazzino di
cibi seri importati; e poi all’ingresso una graziosa fanciulla mi offre sempre
il caffè), ieri all’ora del tè sono sbarcato carico come babbo natale al Wakasa
Kouminkan di Naha (Okinawa), un edificio che affitta aule attrezzante un tanto
all’ora. Per i workshop di pappe hanno uno stanzone che sembra la cucina di un
ospedale, ma che funziona benissimo. Otto fuochi, un po’ di lavandini, tavoloni
a rotelle, decine di sediolini, una credenza stipata di ogni tipo di stoviglia
(a parte la terracotta, ahiahiahi), una lavagna, uno specchio da sala
operatoria sul soffitto.
RIFLETTENDO SULLA MISSION, CON GREMBIULINO IMPRESTATO
(APPENA LO TROVO NE COMPRO UNO UGUALE)
(APPENA LO TROVO NE COMPRO UNO UGUALE)
La truppa (35 persone) era così assortita: stragrande
maggioranza giapponese (un mix di gente di Okinawa e di importati dalla mainland, bacino di provenienza: la
scuoletta in cui, con estrema fatica, sto cercando di imparare il giapponese),
quattro peruviani, una boliviana, due argentini, uno spagnolo, una mia moglie, due
giovani nepalesi, una cinese+figlioletta, un’indonesiana e un americano. Ho
dato loro qualche informazione di base sugli ingredienti e dove reperirli a
Naha (qualcuno deve avere senz’altro pensato che Kaldi mi dia una signora bustarella),
poi ho disegnato la mappa del tesoro: lo Stivale, citando paste e sughi famosi.
Ho raccontato loro che in Europa nessuno apprezza i rumorosi risucchi a tavola,
arte in cui giapponesi, cinesi e coreani sono specializzati, ma che se vi fate
du’ bucatini a Roma sarà impossibile non risucchiare. All’americano di Seattle
(uno che in passato ha fatto il militare in Kosovo assieme a carabinieri sardi
che imboscavano il vino sotto la divisa), ho raccontato che cosa fossero gli
gnocchi di patate (non ne aveva mai sentito parlare prima… il ragazzo, da bravo
rambo, a casa mangia solo junk food).
Ho detto alla ciurma di scordarsi i pomodori freschi, perché in Giappone, così
come in qualunque altro luogo dell’universo lontano dal Mediterraneo, hanno il
sapore dell’acqua di rubinetto, e di dirottare invece sempre e solo sui pelati
in latta importati. Serissimi, i partecipanti hanno annotato tutto (soprattutto
le donne, alcuni uomini erano venuti solo per masticare) su taccuini
fittissimi, o addirittura su iPad. Mi sono sentito Anthony Bourdain, ma senza
aglio e senza sigarette. Poi li ho messi tutti ad affettare ogni cosa
affettabile, dagli ‘odori’ per il ragù alla pancetta, dall’insalata alle olive.
Questo il menù (un mix di classici e di parti personali): tagliatelle al ragù,
spaghetti alla carbonara, all’amatriciana e al tonno e pomodoro, penne alla
norma, fusilli al peperone e gorgonzola; riso integrale ai funghi e gorgonzola;
pollo al limone; insalata con tonno, olive e pomodori secchi; pomodori svuotati
e riempiti con tonno e maionese. Niente pizza, perché in Giappone il forno ce
l’hanno solo le pizzerie, i fornai e i ricchi. Niente dolci, perché
appartengono a un altro universo, e poi ieri non ci sarebbero stati i tempi
tecnici per occuparsene. I ragazzi hanno tagliato di brutto, e devo ammetterlo:
questo è un vero popolo di samurai, come tagliano loro non taglia nessuno. Poi
fuoco alle padelle, previa aspersione di olio d’oliva laddove ce n’era bisogno
(dappertutto), seguito da Oooooh di
stupore per la quantità (in Giappone lo usano con il contagocce, perché caro e
perché non amano i cibi unti).
Fatti i sughi, cotte le paste, ho servito tutto
sul tavolone centrale. Qualcuno, non avendo capito (FORSE) che i sughi servivano per la
pasta, aveva già iniziato a mangiarseli aperitivo-style; hanno spazzolato quasi
tutta la pancetta della carbonara, li mortacci. Per fare tutto ciò sono andato
su-e-giù dagli otto fuochi mille volte mille, tant’è che tornato a casa le
gambe mi facevano male come dopo una maratona. Il tempo di appoggiare le cofane
di cibo sul tavolo e i piattoni erano già svuotati. Mi sono sentito circondato
da cinghiali e da proci. Io in pratica non ho mangiato (quando? come? che cosa?),
se non due tagliatelle, in onore alla vecchia, cara Bulàgna. Grazie a dio la
truppa era cooperativa e si è dimostrata fondamentale non solo nell’uso della
katana sul sedano e sulle carote, ma anche nel seguire le pentole sul fuoco e
nel lavare la montagna di stoviglie a fine avventura. L’aula andava
riconsegnata esattamente come l’avevamo trovata e i ragazzi sono stati
bravissimi nell’opera di ricostruzione. Qualcuno, con amici nel governo, si è
portato a casa le immondizie (in Giappone non sai MAI dove metterle, non esistendo
i bidoni), perché Wakasa Kouminkan ti affitta le aule ma non vuole i tuoi
cadaveri, a fine lezione.
Se i piatti deserti non fossero già una risposta, ho
chiesto loro se avessero gradito, e il coretto dell’Antoniano ha dichiarato,
all’unisono: oishiiiiiiii!!! (buono!;
qualcuno ha pure detto ‘buono’, in italiano, facendo l’odioso gesto dell’indice
roteante infilato in una guancia, eredità di una stupida pubblicità televisiva
su qualche cibo italiota che a me ricorda tanto ma troppo tanto quel cretèn di
Jerry Calà). Dopo mille saluti, sono andato a casa, distrutto, confuso e felice.
Adesso poi dopo, la prima volta che passo da Kaldi, parlerò con il Direttore e
gli chiederò il mio sudato percento.
supporto morale, linguistico e fotografie di Sato9
ARIGATISSIMO!
ARIGATISSIMO!
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