KEKKON
- ieri mi sono sposato (secondo giro di boa, per gli amanti delle statistiche).
Le cose sono andate così. Innanzitutto ho dovuto compilare un formulario
scritto in marziano (Katakana & Kanji), in cui mia madre Giampaola è
diventata Jianpaora e mio padre Alberto si è trasformato in Aruberuto (io sono
Sukozzari Pietoro, prima il cognome poi il nome, come in fabbrica/caserma;
questo sarà il mio prossimo nome, se fra breve Fèssbook mi avrà cancellato del
tutto cercatemi lì, ok?). Dopo du’ spaghetti alla pummarola abbiamo inforcato
le bici e siamo andati all’ufficio lungo Kokusai-dōri, la via principale di
Naha. Luogo pulitissimo, l'ufficio, con circa mezzo milione di impiegati efficientissimi.
In un luogo analogo italiano, per affrontare la stessa avventura, ci sarebbe
un decimo di impiegati (e ci vorrebbe un tempo dieci volte maggiore). Abbiamo
preso il numero per fare la fila (878, devo giocarlo alla lotteria), non c’era
alcuna fila e dopo un minuto siamo stati chiamati. L’impiegata che si è
occupata della nostra pratica aveva una mascherina antibatteri sul muso, dunque
posso dire di averne visto solo gli occhi e le unghie laccate di rosa. Ha
scansionato con gli occhi il nostro formulario, inciampando più volte sul mio
nome e su quello dei miei genitori. Da uno scaffale ha afferrato un
librone-vademecum di almeno mille pagine (caratteri piccoli piccoli) con tutte
le regole e regolette per l’adeguata compilazione di una richiesta di
matrimonio con un gaijin (straniero). Ha apportato le dovute correzioni, poi ha
provato a fare una fotocopia della copertina del mio passaporto, in cui non si
vede più una mazza (lo stemma della Repubblica d’Italia è andato a farsi
benedire da un pezzo). Il risultato è stato una macchiona nera. Ci si sono
messe in quattro, schiarendo e rischiarendo, fino a ottenere una copia
leggibile. Quindi il nostro formulario è passato di mano in mano, dovevamo
attendere. L’ufficio era pieno di gente in fila per altre pratiche.
In attesa
che uscisse il nostro numero siamo andati fuori a farci una foto ricordo con un
mega Shisa – il leone-cane simbolo di Okinawa – e l’ufficione alle nostre
spalle. Se FB mi permettesse di postarla lo farei, ma… gli hacker cinesi, lo
sapete. Durante la lunga attesa ci siamo tenuti su con patatine fritte,
cioccolata e succo di mela. Poi, molto poi, è uscito l’878. Abbiamo pagato 350
yen (circa 3 euro e mezzo) per la pratica attraverso una macchina automatica e
abbiamo dato lo scontrino a un’impiegata per avere l’atto di matrimonio. Le
abbiamo chiesto di poter conservare il tagliando con il numero 878 come
ricordo, ma dopo essersi consultata con la sua superiora ha detto che non era
possibile, dunque abbiamo conservato lo scontrino da 350 yen.
Siamo
ufficialmente sposati, il primissimo passettino per ottenere il visto da
residente (un’odissea di apostille a documenti per le varie ambasciate, ci
vorrà qualche mese e tutta la nostra pazienza) e una nuova vita giapponese.
Distrutti da TRE ORE di ufficio e scartoffie, ci siamo rintanati nell’unico
negozio di Naha che spacci prodotti culinari importati di una certa serietà.
Abbiamo comprato tagliatelle De Cecco, prosciutto canadese (solo ieri ho
scoperto che i canadesi fanno il prosciutto), pomodori secchi turchi, vino rosé
veneto, formaggio grattugiato Fallini (Cazzini? Dev’essere callo di cavallo
Buitoni, a giudicare dal sapore). Poi Satoko è andata a ossigenarsi il cervello
da Starbucks – la sua oasi per ricaricare le batterie ogni volta che finisce la
benzina -, io a fotografare un circo familiare – padre, madre, figlia –
fantastico, roba da Fellini giapponese (si chiamano Rakuichirakuza, di Osaka),
circa settecento foto in un’ora e mezza di spettacolo. Si paga facendo un
origami con una moneta all’interno, poi lo si butta sul palco mentre si
esibiscono. A cervello (mio) ossigenato, ho recuperato Satoko e siamo andati
dal caro Matsuyama-san, un amicone di Hokkaido trapiantato a Naha dove gestisce
una bella guest-house. Il suo inglese è zero, più o meno quanto il mio
Nihon-go, ma lui ama i miei pomodori ripieni con il tonno di Fukushima e la maionese,
per non parlare del vino. A cena c’era pure un giovane nippo-finlandese che ha
dichiarato di amare i pomodori giapponesi (per la cronaca: hanno lo stesso
sapore dell’acqua di rubinetto). Allora ho capito che in Finlandia non hanno la
minima idea di che cosa siano le verdure fresche (il giovane mi ha detto che
lassù vivono di sole patate). Dalla cantina del frigo Matsuyama-san ha scovato
un sacchettone di seppie sfilacciate di Hokkaido, una prelibatezza che si
accompagna di brutto al rosé veneto. Tanto che, dopo un po’, sono crollato
miseramente sul sofà. Dopo di allora ricordo poco. A un certo punto siamo
tornati a casa, mettendoci un terzo del tempo abituale (il potere del rosé
veneto nei polpacci). La micia Tabi ci aspettava sporgendosi al 90% dal
balcone, come a chiedere: ‘Dove cazzo eravate??’ Poi sono crollato sul futon.
Non ricordo se ho fatto una doccia. Giornatina intensa, nel complesso. Peccato
non poterla ripetere, oggi.
DAL BARBIERE - oggi è
la Giornata della Donna, ieri quella dell'Uomo Peloso. la mia giornata. come
tale mi sono fatto un regalo che mi faccio a ogni prepensionamento di papa:
sono andato dal barbiere. questa foto non mi ritrae, innanzitutto perché Fèssbokk
mi permette solo di ri-postare foto che già avevo messo sulla mia fèsspagina,
ma anche perché ci tengo alla mia igiene intima. anche se non mi potete vedere
dopo l'operazione, mi va di raccontarvi com'è andata. il mio tagliapeli di
fiducia è a dieci minuti da casa. l'ho scovato circa un anno fa, tirato dentro
dai cartelloni pubblicitari giganteschi che ritraevano personaggi usciti dai
manga. uno di questi mostra una punk di ultimissima generazione. diciamo
postpunkabbestia, che si autodepila il cranio con una macchinetta da caserma.
prezzo pubblicizzato: 500 yen, poco meno di 5 euro, quotazione di tre minuti
fa. la prima volta che ci sono andato, un papa fa, ho fatto anticamera leggendo
manga e guardando baseball alla TV. mi ha servito una gentile fanciulla che mi
ha fatto un lavoro sopraffino. a fine servizio le ho allungato un po' di yen
extra come mancia. il prezzo di listino mi sembrava ridicolo, e poi ero reduce
da qualche annetto americano in cui se non davi almeno il 15% di mancia ti
sparavano un drone sottopelle. ho dovuto insistere per circa un quarto d'ora,
per farle accettare la mancia. qui in Giappone, e tanto meno a Okinawa, è quasi
una bestemmia, nessuno la dà, e solo dopo aver fatto capire che ero italiano e
che dalle mie parti si usa (menzogna, ma loro mica lo sanno), il salone ha
accettato i miei yen in più con cento inchini e mille arigato. ieri, purtroppo,
la fanciulla non c'era, ma sono stato servito al volo (niente manga, niente
baseball) dal padrone del locale, efficientissimo. ci ha messo la metà della
sottoposta. a fine operazione, quando stava per togliermi il tovagliolo dalla
groppa, sulla medesima ha scoperto ciuffi di peli, tipo i tumbleweed che Lucio
Dalla, pace all'anima sua, si portava appresso. da piccolino temevo quelli con
la pelliccia posteriore (e i ciccioni) come nemici dell'umanità. oggi che la
pelliccia me la porto pure io, faccio finta di essermi dimenticato i pensieri
del tempo dell'innocenza. qualche anno fa, in una situazione analoga, una
barbieressa nel centro di Sao Paulo, Brasiu, mi si arrapò tutta, nel vedere i
capelli cresciuti nel posto sbagliato. quando lo dissi alla mia fidanzatina
dell'epoca mi disse che le sarebbe piaciuto tornare dalla barbiera e spaccarle
un phon sul cranio (brasiliane focose, si sa). ma questa è un'altra storiella.
il barbiere di ieri, vista la selva, da un cassettino ha estratto una specie di
biro elettrica con la quale ha dato una sfoltita al giardino impazzito. e,
visto che c'era, anche a qualche peluzzo senza tetto né legge scatenatosi nel
tempo sui lobi delle orecchie. ero un po' atterrito dall'oggettino, ma da vero
italiano vero ho fatto finta di nulla. alla fine di tutto ciò mi sono sentito
nudo come un neonato (ai piedi della mia poltrona un tappetino da ramadan
ricciolutissimo). stavolta non ho allungato mance, perché finalmente ho capito
che qui è da maragli. ho ringraziato e sono uscito. quando sono passato davanti
alla prima vetrina-specchio mi sono spaventato. ora sembro in tutto e per tutto
un marine cretino uscito da una delle troppe basi militari di Okinawa. che
fresco piacevole alle orecchie, però.
LEZIONE DI BOLOGNESE A
OKINAWA – Oggi sono andato da Asako, un’amica di Tokyo scappata a Okinawa per
fare uno scambio mio italiano/suo giapponese. La prima parte è stata la più
interessante, perché da un mobiletto Asako ha tirato fuori una collezione di
una cinquantina di DVD sull’Italia raccontata dai giapponesi ai giapponesi. Due
collezioni, in realtà. La prima, più corposa, dedicata a un’infinità di centri
minori che, presumo, abbiano un perché, almeno per chi li abita e per il
regista che li ha immortalati. Non ne conoscevo nemmeno uno, nonostante in
geografia al liceo fossi un campioncino e in pagella avessi sempre diecipiù. La
seconda collezione era dedicata ai centri turistici e famosi. Fra questi la mia
mitica Bulàgna (era ora che si andasse oltre il ritrito triangolo
Roma-Firenze-Venezia). Come ho visto che ne aveva un DVD ho buttato il libro di
grammatica, ho fatto piangere la sua figlioletta di tre anni (voleva vedere un
cartone animato Disney, gliel’ho proibito, nel nome dell’istruzione), e ho
imposto la visione del film del secolo. È stato girato da un gruppetto di
giapponesi con almeno un interprete che sapeva l’italiano, a giudicare dalle
pronte risposte degli intervistati (tutti inizialmente con un aria da ‘che
cazzo desiderate?’, dopo che si vedevano piantata la telecamera in faccia; poi
seguiti da risposte gentili e sorridenti, come la vecchia scuola bolognese
insegna). Dopo un’ouverture dedicata agli affascinantissimi binari della
stazione ferroviaria, i Kurosawa hanno infilato via Indipendenza – doveva
essere stato girato in una giornata uggiosa quasi invernale, a giudicare dal
grigiore diffuso e dal broncio medio dei passanti – e da lì hanno iniziato a
fare il giro dell’oca inseguendo i portici. Qua e là alcune chicche che mi
hanno illustrato, ancora una volta, come proveniamo da pianeti differenti.
Finiti all’università, i registi hanno fermato una coppia chiedendo loro a che cazzo servissero tutti quei pezzi di carta luridi appiccicati ai muri di via Zamboni. Annunci per stanze, e anche un po’ di roba antifascista, ha spiegato con la dovuta pazienza un giovane indigeno. Poco più avanti sono cozzati contro un gruppo di studenti almeno di Rovigo, a giudicare dai suoni che uscivano dalle loro bocche. Uno di loro si era appena laureato e stava affrontando il classico percorso dell’imbecillità postlaurea, fatta di corone d’alloro e di spumanti sverginati. La troupe ha chiesto agli extracomunitari che cazzo stessero festeggiando, e questi hanno risposto che il neo-dottore stava leggendo pubblicamente la propria vita, concentrata in satira basso-veneta e dipinta sul cartellone con caricatura del nuovo dottore in giurisprudenza (ancora uno, tutto ciò di cui l’Italia aveva/ha bisogno). Mi sa che i giapponesi hanno lasciato i festeggianti senza aver capito una cippa di quello che stava succedendo. Finiti in piazza Maggiore hanno beccato due nonni che ormai si prendevano a cazzotti. Quando la baruffa è scemata hanno chiesto ai superstiti che cazzo fosse successo. Uno comunista, l’altro fascista, ha spiegato un altro pensionato da piazza. Arrivati davanti al mercato delle Erbe hanno intervistato due giovani attempati a una fermata del bus chiedendo loro a che cazzo servisse quell’aggeggio lì. È una bilancia pubblica, per pesarsi. Vede, si infila una moneta da 50 centesimi e ti dice quanto pesi e quanto invece dovresti pesare, di solito almeno venti chili di meno, ha spiegato uno dei due, facendo tanto di prova-video. Davanti al Roxy Bar per fortuna non c’era Vasco Rossi, ma una barricata di nonni parcheggiati ai tavolini. Hanno chiesto loro che cazzo facessero lì, e i nonni, nel rispondere (sciamo qui per passchare il tempo, che scennò non passcha mai, sòccm) li hanno travolti di S a tagliatella, che mi hanno fatto un gran piacere (da ‘ste parti non è che abbondino un granché, ne le S né le tagliatelle). Poi hanno fermato un altro nonno (MAI una gnocca stradale, timidoni giapponesi) che stava per inforcare il moturèn davanti al palazzo della Mercanzia e gli hanno chiesto a che cazzo servissero quelle travi gigantesche sul palazzo che li sovrastava. Lui ha spiegato loro che quella era l’architettura del tempo che fu, prima che arrivassero palazzinari, architetti e assessori all’edilizia marci. Quindi sono finiti di nuovo in piazza Maggiore, stavolta per assistere a uno spettacolo di burattini sotto palazzo d’Accursio. L’interprete, non capendo la lingua dei pupazzi parlanti, ha chiesto al burattinaio che cazzo fossero quei suoni scivolosi. Dialetto bulagnese, ha risposto gentilmente l'intrattenitore. Dalle parti di via Pescherie hanno poi scoperto un anziano spacciatore di tortellini, e gli hanno chiesto che cazzo fossero quei nodi gialli esposti in vetrina. Sono turtlèn, ripieni di mortadella e forma (quale forma?, ha chiesto l’interprete; triangoli? trapezi?). I giappi dovevano sembrargli dubbiosi, per cui il negoziante geometra ha raccolto una manciata di tortellini dalla vetrina e ne ha spezzato uno, facendo vedere loro che dentro era vivo e pulsava. Ho sbavato bava molto liquida sul tavolino della mia amica, asciugata al volo con una manica (in quel momento, per fortuna, Asako era in bagno a fare due gocce). Poi sono entrati in un negozio di prosciutti, un piazzale Loreto di cosce maiale appese, e lì non ci ho visto più (ho detto parole brutte brutte, per fortuna la mia amica era ancora in bagno; bava a torrenti, a Okinawa il prosciutto NON ESISTE, a parte quello immondo canadese, porco maiale all'acero porco). Lasciato finalmente in pace il cibo, sotto il portico del Pavaglione hanno stanato un giovane che emetteva schitarrate da stramaledetti Gipsy Kings, e gli hanno domandato che cazzo fossero quei rumorazzi. Il ragazzo, uno studente siciliano, simpatico come tutti i siciliani a parte i mafiosi e gli alfani schifanosi mafiosi, ha detto loro di frequentare il conservatorio per imparare a suonare la chitarra acustica classica, trasferirsi in Ispagna e colà fare concorrenza ai gipsykings locali. Ho sempre amato la follia dei siciliani. Dulcis in fundo, tornati in via Indipendenza, sono incocciati in quel tipo che da vent’anni almeno imbratta croste sotto il portico all’altezza di casa Majani. Gli hanno chiesto che cazzo dipingesse. I paesaggi della mia terra, ha detto loro, fra una boccata di cigaretta e l’altra. Dopodiché la figlia della mia amica si è risvegliata dalla nanna del dopo-pianto, e allora non ci son più stati cazzi, ho dovuto concederle Disney e raccattare il libro di grammatica. Cazzarola, oggi ho capito che Bu mi manca. Per non parlare del prosciutto.
Finiti all’università, i registi hanno fermato una coppia chiedendo loro a che cazzo servissero tutti quei pezzi di carta luridi appiccicati ai muri di via Zamboni. Annunci per stanze, e anche un po’ di roba antifascista, ha spiegato con la dovuta pazienza un giovane indigeno. Poco più avanti sono cozzati contro un gruppo di studenti almeno di Rovigo, a giudicare dai suoni che uscivano dalle loro bocche. Uno di loro si era appena laureato e stava affrontando il classico percorso dell’imbecillità postlaurea, fatta di corone d’alloro e di spumanti sverginati. La troupe ha chiesto agli extracomunitari che cazzo stessero festeggiando, e questi hanno risposto che il neo-dottore stava leggendo pubblicamente la propria vita, concentrata in satira basso-veneta e dipinta sul cartellone con caricatura del nuovo dottore in giurisprudenza (ancora uno, tutto ciò di cui l’Italia aveva/ha bisogno). Mi sa che i giapponesi hanno lasciato i festeggianti senza aver capito una cippa di quello che stava succedendo. Finiti in piazza Maggiore hanno beccato due nonni che ormai si prendevano a cazzotti. Quando la baruffa è scemata hanno chiesto ai superstiti che cazzo fosse successo. Uno comunista, l’altro fascista, ha spiegato un altro pensionato da piazza. Arrivati davanti al mercato delle Erbe hanno intervistato due giovani attempati a una fermata del bus chiedendo loro a che cazzo servisse quell’aggeggio lì. È una bilancia pubblica, per pesarsi. Vede, si infila una moneta da 50 centesimi e ti dice quanto pesi e quanto invece dovresti pesare, di solito almeno venti chili di meno, ha spiegato uno dei due, facendo tanto di prova-video. Davanti al Roxy Bar per fortuna non c’era Vasco Rossi, ma una barricata di nonni parcheggiati ai tavolini. Hanno chiesto loro che cazzo facessero lì, e i nonni, nel rispondere (sciamo qui per passchare il tempo, che scennò non passcha mai, sòccm) li hanno travolti di S a tagliatella, che mi hanno fatto un gran piacere (da ‘ste parti non è che abbondino un granché, ne le S né le tagliatelle). Poi hanno fermato un altro nonno (MAI una gnocca stradale, timidoni giapponesi) che stava per inforcare il moturèn davanti al palazzo della Mercanzia e gli hanno chiesto a che cazzo servissero quelle travi gigantesche sul palazzo che li sovrastava. Lui ha spiegato loro che quella era l’architettura del tempo che fu, prima che arrivassero palazzinari, architetti e assessori all’edilizia marci. Quindi sono finiti di nuovo in piazza Maggiore, stavolta per assistere a uno spettacolo di burattini sotto palazzo d’Accursio. L’interprete, non capendo la lingua dei pupazzi parlanti, ha chiesto al burattinaio che cazzo fossero quei suoni scivolosi. Dialetto bulagnese, ha risposto gentilmente l'intrattenitore. Dalle parti di via Pescherie hanno poi scoperto un anziano spacciatore di tortellini, e gli hanno chiesto che cazzo fossero quei nodi gialli esposti in vetrina. Sono turtlèn, ripieni di mortadella e forma (quale forma?, ha chiesto l’interprete; triangoli? trapezi?). I giappi dovevano sembrargli dubbiosi, per cui il negoziante geometra ha raccolto una manciata di tortellini dalla vetrina e ne ha spezzato uno, facendo vedere loro che dentro era vivo e pulsava. Ho sbavato bava molto liquida sul tavolino della mia amica, asciugata al volo con una manica (in quel momento, per fortuna, Asako era in bagno a fare due gocce). Poi sono entrati in un negozio di prosciutti, un piazzale Loreto di cosce maiale appese, e lì non ci ho visto più (ho detto parole brutte brutte, per fortuna la mia amica era ancora in bagno; bava a torrenti, a Okinawa il prosciutto NON ESISTE, a parte quello immondo canadese, porco maiale all'acero porco). Lasciato finalmente in pace il cibo, sotto il portico del Pavaglione hanno stanato un giovane che emetteva schitarrate da stramaledetti Gipsy Kings, e gli hanno domandato che cazzo fossero quei rumorazzi. Il ragazzo, uno studente siciliano, simpatico come tutti i siciliani a parte i mafiosi e gli alfani schifanosi mafiosi, ha detto loro di frequentare il conservatorio per imparare a suonare la chitarra acustica classica, trasferirsi in Ispagna e colà fare concorrenza ai gipsykings locali. Ho sempre amato la follia dei siciliani. Dulcis in fundo, tornati in via Indipendenza, sono incocciati in quel tipo che da vent’anni almeno imbratta croste sotto il portico all’altezza di casa Majani. Gli hanno chiesto che cazzo dipingesse. I paesaggi della mia terra, ha detto loro, fra una boccata di cigaretta e l’altra. Dopodiché la figlia della mia amica si è risvegliata dalla nanna del dopo-pianto, e allora non ci son più stati cazzi, ho dovuto concederle Disney e raccattare il libro di grammatica. Cazzarola, oggi ho capito che Bu mi manca. Per non parlare del prosciutto.
BUIO DA ORBI – ieri
sera, a casa, abbiamo spento tutte le luci, nella speranza che molti altri lo
facessero, qui a Okinawa, per commemorare le vittime dello tsunami di due anni
fa e ricordare agli altri che in Giappone buona parte dell’energia elettrica
proviene dalle maledette centrali nucleari. Ringrazio gli amici di Fèssbokk che
hanno apprezzato e condiviso il mio post a riguardo. Premesso l’impegno sociale
e il romanticismo di tutto ciò, ecco che cosa poi è successo. Era dai tempi
delle candele a Canoa Quebrada e Jericoacoara, o degli apagón a Cuba, o dai costanti blackout
a Goa che non vivevo l’emozione di stare al buio (a occhi aperti). Scovate
tutte le candele di Ikea che avevamo in casa, le abbiamo disseminate un po’
dovunque. Ovviamente, dopo tre secondi la micia Tabi è andata a ficcanasare
troppo da vicino, e appena si è bruciata un baffo ha capito che non era roba
per gatti. Andare in bagno non è stato facilissimo, ma la vera prova del nove è
stata l’insalata. A me piace a fettine finissime, e sono ancora sorpreso di non
averci lasciato un polpastrello, mentre operavo con maestria da chirurgo/sushi
chef. La sfiga delle candele Ikea è che sono nanette, più basse dei nostri
piatti, per cui si è mangiato seguendo il ricordo delle insalate precedenti,
più che qualcosa di realmente visibile. Concluso il pasto a suon di birre
coreane e pezzi di Toblerone, sempre sia lodato, è scattata una pseudo-noia da
mancanza di cose da fare. Niente radio, niente computer, niente Angela’s ashes (e niente TV, siamo
poveri e non ne abbiamo una; THANK GOD WE ARE POOR).
Abbiamo deciso di guardare
un film dal magazzino del mio computer. Un piccolo tradimento nei confronti
della Mission, ma non potevamo certo
dormire alle nove e mezza con gli occhi sbarrati in direzione del soffitto. E
qui è sorto il classico conflitto uomo-donna, marito-moglie, Italia-Giappone,
gelato al pistacchio-cioccolato (ecc.). A Satoko, la mia neomogliettina,
piacciono solo i film ricchi di sentimenti e zero sangue (pomodoro, come lo
chiama lei). A me piacciono quasi solo quelli in cui si spara/tromba
moltissimo, pomodoro a go-go. Se possibile soldati americani in azioni spaccaculi
contro arabi/cinesi/russi cattivissimi. Posso vedere Black hawk down ogni giorno prima e dopo i pasti e non stancarmi
mai. Un Tarantino qualsiasi fra un pasto e l’altro. Nelle ampie stanze del mio
magazzino-cinema (322 GB di memoria, divisi tra 84 cartelle e 533 file) ho
dunque iniziato una faticosissima impresa di ricerca di qualcosa che
aggradasse, o almeno non disturbasse, la mia signora. Siamo finiti a guardare New York Stories, partendo dall’episodio
che mi ha sempre fatto impazzire, quello in cui Nick Nolte, pittore-icona della
NYC cool, perde ogni neurone fra le
cosce della sua assistente. Finché questa lo sfancula di brutto e lui ne trova
un’altra con un sorriso spaccacuori. Scorsese al meglio, musica fantastica,
piedi di Rosanna Arquette al meglio pure loro. Il problema, però, era
l’americano strettissimo dei dialoghi, quasi incomprensibile per Satoko.
Passati allo stucchevole episodio successivo, quello di Coppola con i bambini
miliardari, abbiamo abbandonato il film per passare a V for Vendetta. A me piace di brutto, ma qui lo scoglio è stato
l’inglese della regina, strettissimo. A quel punto, ormai era medianoche,
abbiamo deciso di provare a dormire. E, visto che il computer era già acceso,
ho voluto controllare la mia e-mail (un cliente sta cercando di non pagarmi,
sono preoccupato). Come Satoko ha visto che accendevo il wi-fi mi ha guardato
come si guardano i traditori e ha sentenziato: ‘Capisco, tu sei italiano, io
giapponese. Buona notte.’ E mi ha chiuso la porta scorrevole in faccia. A quel
punto non ho controllato la posta elettronica, sono sempre più povero, e non mi
è rimasto altro da fare che dormire. I piedi di Rosanna Arquette mi hanno
tenuto un po’ sveglio, ma poi ho pensato che tanto quella era tutta
fantascienza e sono scivolato verso il buio del sonno profondo. Stamattina
Satoko era uno zuccherino, come nulla fosse successo. Spero solo che tutto ciò
serva a far rivalutare l’utilizzo delle centrali nucleari da parte del folle
governo giapponese. Ma ho i miei serissimi dubbi, a riguardo. Che io sia
italiano?
MUSICA O ALLUCINAZIONI? - Qualche giorno fa mi sono svegliato con la
radio di Okinawa che trasmetteva l'oscena 'una domenica bestiale' di fabio
concato (minuscolissimo), il giorno dopo con una canzunciella napuletana
Murolo-style. Oggi con ‘una lacrima sul viso’. È da tempo che ho smesso di
consumare funghi allucinogeni, non ho più l'età. mi sa che siamo proprio
diventati internèscional.
QUESTIONI DI ANO - Aneddoto esilarante raccontatomi da un
amico italiano, uno degli unici tre (fra cui me) residenti a Naha. Qualche anno
fa qui venne il famoso ecologista ferrarese Bifolco Quindici, amante dei
fondali incontaminati e delle bombe atomiche di Chirac a Moruroa. Il mio amico
gli fece un po’ da guida, visto che abita qui da una decina d’anni e parla
giapponese. Nel suo interloquire, ogni tanto, all’italiano mescola qualche
parolina giapponese, fra cui ‘ano’,
un po’ il nostro ‘allora’. Qui in
Giappone esistono due tribù, quella degli ano
e quella degli eto (più o meno lo
stesso significato, per introdurre frasi con esitazione e idee ancora da
raccogliere: allora, cioè praticamente…).
Quindici, noto sostenitore dei Balilla e delle Giovani Italiane, poco orientato
verso l’amore omosensuale, a un certo punto si indispettì con il mio amico: ‘Che
cos’è tutto quel deretano, che mette dappertutto??’
ANCHE QUI! – stamattina mi sono svegliato
con le cannonate. Abbiamo una porta de fero, senza campanello, per cui quando
qualche pellegrino – tipo postino – ci vuole stanare bussa. I postini, di
solito, lo fanno gentilmente. Ma chi ha bussato stamattina aveva le nocche
pesanti. Essendo ancora saldato al futon, ho spedito Satoko a vedere chi
stracciava l’anima. Lei è estremamente diplomatica con i rompicazzo, qualche
giorno fa ha gentilmente rispedito al mittente una poliziotta che era venuta
qui a fare un po’ di indagini ficcanaso sul chi vive in questa casa, tipo
censimento sbirresco. Satoko, piccolina ma quando lo vuole con le palle di un
orango, le ha detto MOLTO gentilmente di non amare la polizia, in quanto
rappresentante di un governo che si uccide da solo (e chi lo circonda, anche se
non lo ha votato) con le centrali nucleari. In Italia, a una risposta così,
sarebbero arrivati i carramba con gli idranti e i cani lupo commissari, ma qui
nel folle ed educatissimo Giappone la birra se n’è andata scusandosi. Questa,
però, è un’altra storia. Quella di stamattina, che stracciava la minchia a
domicilio, era nientepopodimenoche una stramaledetta TESTIMONE DI GEOVA. Sì, la
peste è arrivata fin qui. La sfiga è che in questo angolo di Yosemiya, il
quartiere popolare in cui viviamo, la nostra casa è a quattro passi da una
centrale di spaccio della fede.
La piazzista di dèi, lasciata fuori dalla porta chiusa, è stata allontanata a male parole da Satoko, che però a me, parlando ancora giapponese come un bambino di un anno e mezzo, sono sembrate gentilissime. Lo stress da sveglia da caserma ha portato Satoko verso il bagno, per fare due gocce di stizza. La testimone ligure, non appena l’ha vista attraverso la finestra che alambiccava dalle parti del WC ha continuato, con una certa dose di insistenza, la propria opera di proselitismo. Attraverso la zanzariera della finestra del bagno. A quel punto Satoko, a mutande abbassate, le ha intimato di andarsene, kudasai (per favore). Intimare a qualcuno di andarsene, anche se kudasai, in Giappone è ritenuto scortesissimo, più o meno come un nostro vaffanculissimo. Ma a me, tanto per cambiare, è sembrato molto cortese (niente urli né scaracchi diretti verso la seccatrice, come avrei fatto io). Quando ho capito chi era che stracciava i sentimenti mi sono alzato di botto dal futon, manco stesse per passarmi un elefante sulla pancia. Dov’è, dov’è?? Ho chiesto, rabido, a Satoko. Volevo parlare alla testimone in italiano, dirle qual è il mio pensiero intimo a riguardo di quelli che prendono a cazzotti la mia porta per offrirmi aria fritta. È stato un quasi-shock, per me. Una delle molte cose buone di questo Paese è proprio la quasi totale assenza di dèi. Amo andare nei templi shintoisti o buddhisti, ma per puro spirito da fotografo turista. La prossima volta che affitteremo un appartamento faremo un’indagine più approfondita sui pusher del quartiere.
La piazzista di dèi, lasciata fuori dalla porta chiusa, è stata allontanata a male parole da Satoko, che però a me, parlando ancora giapponese come un bambino di un anno e mezzo, sono sembrate gentilissime. Lo stress da sveglia da caserma ha portato Satoko verso il bagno, per fare due gocce di stizza. La testimone ligure, non appena l’ha vista attraverso la finestra che alambiccava dalle parti del WC ha continuato, con una certa dose di insistenza, la propria opera di proselitismo. Attraverso la zanzariera della finestra del bagno. A quel punto Satoko, a mutande abbassate, le ha intimato di andarsene, kudasai (per favore). Intimare a qualcuno di andarsene, anche se kudasai, in Giappone è ritenuto scortesissimo, più o meno come un nostro vaffanculissimo. Ma a me, tanto per cambiare, è sembrato molto cortese (niente urli né scaracchi diretti verso la seccatrice, come avrei fatto io). Quando ho capito chi era che stracciava i sentimenti mi sono alzato di botto dal futon, manco stesse per passarmi un elefante sulla pancia. Dov’è, dov’è?? Ho chiesto, rabido, a Satoko. Volevo parlare alla testimone in italiano, dirle qual è il mio pensiero intimo a riguardo di quelli che prendono a cazzotti la mia porta per offrirmi aria fritta. È stato un quasi-shock, per me. Una delle molte cose buone di questo Paese è proprio la quasi totale assenza di dèi. Amo andare nei templi shintoisti o buddhisti, ma per puro spirito da fotografo turista. La prossima volta che affitteremo un appartamento faremo un’indagine più approfondita sui pusher del quartiere.
IL VOLANTINO LASCIATO DALLA STRACCIAMINCHIA NELLA NOSTRA BUCHETTA DELLE LETTERE
UNA VITA DA SAMURAI – alcuni
amici in Italia devono pensare che qui in Giappone io abbia una vita tutta geishe, che mi nutra esclusivamente di sushi, che compri mutandine usate da
vergini, che passi le giornate a fissare i fiori di ciliegio e che nei fine
settimana mi travesta da Mazinga. Che, come Takeshi Kitano, mi sia fatto samurai biondo e viva avventure da Zatōichi in
lotta sanguinaria e giustiziera contro giovani andati a male arruolati dalla
Yakuza. Che, anziché tagliare la bellissima testa a Lucy Liu/O-Ren Ishii con la
mia katana di Hattori Hanzo, gliela accarezzi da mane a sera, ovviamente
avvolto da un kimono a cinque stelle.
In onore alla Verità, vi vorrei dire qual è
uno dei momenti più avventurosi della mia giornata. Verso sera, prima di cena,
a volte dopo, andiamo da Kanehide, il supermercato sotto casa. Lì, soprattutto
d’estate, quando a casa non si respira – ad agosto ci devono essere settecento
gradi -, ci si ripija, anche grazie all’aria condizionata. Una musichina sakana,
sakana…. (‘pesce, pesce….’; by the way, nel portoghese del Brasile vuol
dire sporcaccione, sacanagem i film zozzi) accompagna la danza del mio
carrello dal reparto verdura a quello ciccia. Come entro mi fiondo verso l’espositore
per i poveri, dove mi aspettano frutta e verdura a scadenza ravvicinata e
prezzo scontato. La rucola, di cui vado pazzo, arriva a non più di TRE
sacchettini per dia, perdio. Come tutti i Voleri che giungono dall’alto dei
cieli, mi è imperscrutabile percheccazzo non ne ordino la vorticosa quantità di
quattro o cinque. Fatto sta che dopo le sei e mezza non ce n’è più manco una,
tutta colpa di quelle zoccole di massaie acculturate venute a fare la spesa
prima di me. L’unica frutta che posso permettermi, con i prezzi che circolano, sono
le banane, giunte dalle Filippe. In occasioni rare una mela (1 euro cada). Se penso
ai meloni e alle pesche e alle ciliegie e alle fragole delle mie terre
basso-padane mi viene da offendere gli dèi, per cui marcio a banane, che si
dice facciano pure bene. La pastazza locale la boicotto, in quanto i giapponesi
si nutrono esclusivamente di spaghettini da ospedale. La De Cecco costa il
triplo che da noi, dunque la lascio a giacere, snob e pregiata, nell’espositore.
In alternativa compro spaghetti commestibili di marca De Niro, forse roba di
mafiosi italo-americani con cugini nella Yakuza. E poi: pomodori pelati (ok),
tonno in scatolette radioattive, cioccolata Meiji (buonissima), yogurt pure
Meiji chiamato ‘Bulgaria’ (dovevo venire a Okinawa per scoprire che i bulgari
si fanno di brutto con lo yogurt), carne macinata metà australiana metà
indigena, soba (spaghettoni di riso locali, buoni ed economici), latte
100% (caro; l’alternativa sarebbe quello 50%, fatto con acqua e polveri giunte
da chissà quale costellazione), birre coreane (buone e più economiche di quelle
analcoliche nipponiche, in pratica acqua di rubinetto), caffè di ultima e
croccantini da dare ai gatti randagi nel parco subito fuori. Alla cassa ho un
momento ‘sociale’, in quanto sono costretto a pronunciare almeno DUE parole nel
mio giapponese inesistente. Per gli impiegati del supermercato e per i clienti
devo essere un attrazione, in quanto unico gaijin, straniero, del
quartiere. Ogni tanto qualche bimbo mi fissa dal carrello sul quale l’ha
incastrato mamma, come si fa con il panda allo zoo. Alla cassa ormai mi
conoscono tutte le cassiere del doppio turno, almeno di vista. La mia preferita
è una clona di mia moglie, una specie di Calimero squittente, gentile fino all’irresponsabilità.
Non si limita, come fanno da contratto tutte le sue colleghe, a pronunciare a
voce alta il nome della merce che ho acquistato mentre la infila nella borsina
(un tonno, una cioccolata, ecc.), ma lo fa con il triplo sorriso e, oserei
dire, con entusiasmo. Avete mai visto, alla Coop, una cassiera con l’entusiasmo?
Certo, se ci dovessi lavorare io, alla cassa, altro che entusiasmo, le darei,
Signora. Però qui sono su Marte, dunque ci può stare pure l’entusiasmo, alla
cassa. Il dialogo, dicevo. Ogni volta mi viene richiesto se ho la tessera di
Kanehide, ogni volta dico di no (parola n°1). Spiegare alle cassiere che odio
il concetto filosofico di tessera del supermercato sarebbe impossibile, con
tutto il Nihon-go di cui dispongo. Non escludo, però, di farlo, tra
qualche anno luce. L’arigato (parola n°2), a fine avventura, dopo aver
pagato, è pure dovuto. Quando esco dal supermercato mi sento di aver parlato un
sacco. E, soprattutto, di essermi rinfrescato i neuroni, staccando dalle ore
quotidiane sul computer e su Photoshop. Kanehide non mi stanca mai, mi dà pace
interiore. Mi sa tanto che mi sono beccato la Sindrome della Massaia, una
malattia pericolosissima che coglie quelli di una certa età.
NON CI POSSO CREDERE! - la banconota da 2000 yen esiste per DAVVERO! ieri mi è capitata fra le mani la prima in un anno di Giappone. Forse devo conservarla, deve valere almeno il doppio dell'importo nominale.
PROFESSIONE:
STRACCIAMINCHIA – qui in Giappone, Paese delle Regole, alcuni uomini in
pensione vengono riciclati con una professione che da noi avrebbe scarso
successo (o provocherebbe cazzotti fitti): quella di stracciare la minchia al
prossimo. Mi ricordano terribilmente i vecchietti della mia adolescemenza
bolognese. Allora giravano sempre in pattuglia, in particolare ai giardini
Margherita. D’inverno vestivano loden e cappello scuro, d’estate canottiera
bianca, braghini corti, sandali da frate trappista e calzini amaranto (bianchi,
quelli con uno spiccato senso per la fèscion). Erano tutti iscritti al P.C.U.S.
(il partito dell’Unione Sovietica) e giravano senza una meta prestabilita, se
non quella di stanare qualche studelinquente sfaccendato, in fuga dalla scuola,
a fare danni al Bene Pubblico (lampioni, fontane, prati; io ero uno di quelli).
Qui in Giappone, dove odiano i comunisti, ai comunisti viene data un’uniforme,
così da essere prontamente riconosciuti. L’uniforme, di solito, è azzurrina
puffo, corredata da guanti bianchi e cappellino che ricorda di brutto i soldati
dell’Imperatore. Tra questi lavoratori viene arruolato anche qualche giovane,
ma soprattutto si tratta di anziani. Più sono vetusti, più sono rabidi e
attaccati al loro dovere. Il loro dovere è quello di far rispettare le mille
regole del quieto vivere pubblico, non importa se poi tutte ‘ste regole rendono
il vivere pubblico un filo invivibile. Tempo fa, a un concerto al porto di
Tomari, ho fatto un’indagine antropologica su uno di questi hobbysti sbirri
(non so se sono retribuiti, temo che siano volontari). Il concerto era roba per
famiglie ed educande, nulla di alcolico o facinoroso, la Yakuza – se c’era –
non si vedeva. La Mission dei nonni in divisa era quella di mantenere
pedonalizzata la piazzetta del porto. Uno di questi era particolarmente
attaccato al proprio dovere. A un certo punto ha intravisto all’orizzonte ben TRE
giovinastri che osavano entrare nella piazzetta con nientepopodimeno che una
pericolosissima bicicletta. Il tipo gli è corso incontro, a guantini bianchi
piegati a forma di respingente da circuito di F1, manco li volesse avvisare che
lo tsunami stava arrivando. Con due mani ha afferrato il temibilissimo manubrio
che incedeva alla vorticosa velocità di 700 metri all’ora contro la folla di
madri e bambini. Li ha fermati e redarguiti come si fa con i romeni impazziti
che il sabato sera ti stirano ubriachi il barboncino sulle strisce pedonali con
la Mercedes fumante di furto. Quando ho visto la scena in un secondo il
cervelletto è tornato al ricordo dei miei amici bulli del quartiere, che per un’azione
così repressiva avrebbero fatto scattare violenza da branco inferocito. I tre
giovani giapponesi, invece, dopo un accenno di smorfia, che con una certa
libertà poetica mi sono sentito di tradurre con un ‘nonno, che stracazzo vuoi??’,
hanno fatto i bravini, sono scesi dal carro armato e lo hanno spinto a mano.
Una scena analoga l’avevo
vista un paio di anni fa a Fukuoka. Lì i vecchietti nazicomunisti sono ancor
più inferociti, chissà perché. Girano in pattuglie di due, con tutine molto
simili a quelle degli inutili tecnici accorsi a tamponare il disastro alla
centrale nucleare di Fukushima. Armati di borselli simili a quelli dei nostri
controllori dell’autobus, appiccicano incarogniti bigliettini ai manubri delle
biciclette parcheggiate fuori dalle rastrelliere (multa). La ‘spalla’ dell’appiciccatore,
poi, fotografa il mezzo fuorilegge, così da avere una prova inconfutabile. Sul
volto, a operazione conclusa, un ghigno di Vittoria. Per fortuna qui a Okinawa
di ‘sti matti non ne girano un granché.
L’altro pomeriggio,
però, ho avuto un momentaneo calo di ossigeno, immediatamente seguito da un
momentaneo desiderio d’Italia (mi è durato due minuti, per la cronaca). Stavo aspettando
un’amica sui gradini del Naha Main Place, un grande centro commerciale dove si
trova l’unico spacciatore di tagliatelle verdi De Cecco di tutta Okinawa. Ero in
anticipo, all’interno del mall non ce
la facevo più a far finta di non vedere tutte quelle stragnocche, per cui mi
ero andato a ossigenare sulla gradinata all’esterno. Gradinata larga quanto un’autostrada,
non intralciavo nessunissimo. Dopo un po’, un giovane comunista in divisa mi
raggiunge, mi chiede se parlo giapponese, gli rispondo chotto chotto (‘poco poco’), e lui, parlando lentamente come si
farebbe a un bambino autistico di due anni, mi ha fatto capire che non potevo
sedere sui gradini. Nessun cartello in giro che sentenziasse ciò. Me lo ha
fatto capire con il gesto che in Giappone significa NO, due mani aperte incrociate
a 90°, tipo esorcismo contro i diavoli brutti brutti. In un nanosecondo il
sangue mi è andato alla testa e alla cappella, ma visto che sto cercando di
ottenere il visto da residente, ho visto nei miei sogni la Madonna di San Luca,
le ho mandato al volo una preghierina velocissima (‘Marò, se mi fai stare
calmino appena torno a Bulàgna ti accendo un cero, ok?’), e gli ho detto in
inglese che sarei rimasto lì solo un altro minuto, perché stavo aspettando
qualcuno. Ma non ho alzato il culone dal gradino. Il tipo se n’è andato
dubbioso, cero che gli stranieri siano tutti anarchici sporcaccioni senza tetto
né legge. L’ho visto che confabulava con un collega anziano, il quale con la
coda dell’occhio aveva iniziato a fulminarmi. Io, con la coda dell’occhio, lo
avrei preso a katanate. Ma… il visto. Ce la farò a reggere, al prossimo
regolatore in divisa? Spero che nelle gattabuie giapponesi, almeno, passino un katsudon (カツ丼) al
dì, il mio piatto preferito (cotoletta di maiale su ciotolona di riso, una vera
bontà).
Ma ti sei sposatooooo ? ed ora vivi ad Okinawaaaa? Bhè, che dire .... Congratulazioni, Sono molto contento per te. :-)
RispondiEliminaSpero,prima o poi,di poter fare la stessa cosa (non sposarmi,quello l'ho gia fatto) e di venire a vivere ad okinawa, purtroppo la cosa è sarà possibile solo dopo aver scontato qualche anno di purgatorio ad Osaka(motivi familiari) ma il nostro progetto di venire a farci una nuova vita a Naha è sempre vivo!!!
Aspetto sempre con ansia di leggere le tue avventure ad Okinawa ed intanto sogno ad occhi aperti.
Un saluto
Stefano
caro Stefano, hai ricevuto la mia risposta (via e-mail)?
RispondiEliminain ogni caso: è un piacere avere di nuovo tue notizie, ti davo per disperso.
beh, il sogno ti aspetta, bastano poche ore d'aereo!
spero di incontrarti, un giorno.
ciaoooo, da Naha
Pietro
Macchè Pietro,non ho ricevuto nessuna mail.....possibile che mia moglie l'abbia cancellata per errore.
RispondiEliminaMi fa veramente molto piacere risentirti.
Questa estate sono venuto ad agosto a Naha, per una settimana dal 1 al 9, ma non ti ho contattato perche avevo lasciato tutto in Italia.Quando sono arrivato in Giappone non ho avuto modo di organizzarmi,praticamente sono partito per okinawa il giorno dopo che sono arrivato ad Osaka.
Naha ed Okinawa sono veramente posti fantastici,per me era la prima volta ma per mia moglie,appassionata di immersioni, no. Abbiamo preso una macchina a noleggio e girellato un pò rimanendo sempre però su Okinawa senza andare sulle isole minori,cosa che a me invece sarebbe interessata molto,ma come ben sai .......le donne hanno sempre ragione "ma che ci andiamo a fare....abbiamo pochi giorni.....non c'è niente!! "
Leggo sempre con grande piacere ed "avidità" i tuoi scritti e vedrai che prima o poi riusciremo ad incontrarci.
Ciao da Firenze.
Stefano
capisco, Stefano. mi dispiace di non averti incontrato ad agosto, peccato. lo so, andare alle isole minori è molto costoso, e agosto è alta stagione, traghetti e guest-house strapieni. per le immersioni ci sono bei posti anche sull'isola principale e al porto di Tomai (Naha) ci sono svariate agenzie che le organizzano. vabbè, sara per la prossima. contattami, per favore, sulla mia e-mail, pietroscozzari@gmail, così parliamo del futuro, quando puoi e se vuoi. ciaoooo, Pietro
RispondiElimina