Non vorrei che i
seguaci di ‘Un italiano a Okinawa’, leggendo le mie cronache dal fonte,
pensassero che Okinawa sia il Paradiso in Terra (se così fosse rischierei di trovarmeli
tutti qui, un giorno; e se uno scappa dall’Italia avrà pure i suoi sacrosanti motivi,
no?). Vorrei dunque fare un breve elenco delle cose che non mi piacciono, qui. Quasi
tutte, in qualche modo, legate all’eredità culturale dalla troppo vicina Cina
(Taiwan, per essere precisi; la moderna Taiwan, però, è mediamente MOLTO più
educata della madrepatria). Inciso: la prima volta che sono arrivato in
Giappone, oltre due anni fa, l’ho fatto in aereo, sbarcando a Fukuoka.
Provenivo da Shanghai. Avevo passato sette settimane vissute pericolosamente in
Cina, trascorse a scansare gente che mi fumava in faccia, che mi prendeva a
schiaffi a suon di alitate all’aglio in metropolitana, che mi tagliava sempre
la fila (in ascensore, alla cassa dei negozi, entrando nel vagone della metro, alla
reception dell’albergo, al check-in in aeroporto, dovunque), che cercava di
piallarmi sull’asfalto mentre attraversavo una strada sulle strisce pedonali o
mentre camminavo su un marciapiedi, che mi voleva dare da mangiare spezzatino
di cane con contorno di gatto, che mi scaracchiava sulle scarpe, che mi urlava
nelle orecchie anziché parlarmi, che deflagrava l’etere a me circostante
parlando de li cazzi sua al telefono, che sbatteva le porte delle camere di
fianco alla mia come se dovesse chiudere i portoni della Città Proibita all’arrivo
dei maoisti. Maoisti che, nel costruire la Cina comunista, devo aver senz’altro
considerato l’educazione di base tra gli umani una cosa per checche
occidentali. Inutile, anzi, antiproduttiva (fa perdere tempo) nell’ottica della
Crescita del Paese.
Arrivato a Fukuoka,
viaggiavo a un metro d’altezza dal suolo. Nessuno mi urlava/ruttava/scoreggiava
in faccia, le auto si fermavano ai semafori e davanti alle strisce pedonali. La
metropolitana odorava di ossigeno, non di ortofrutta. I pedoni facevano la fila
sul marciapiedi prima di attraversare
la strada, nessuno mi spingeva sotto l’autobus. Il silenzio dominava. Ero in
Paradiso. Ricordo che a un compagnuccio di ostello rilasciai una dichiarazione
per me inedita: “Sono da quindici giorni in questo Paese e non sono ancora
incappato in una rottura di cazzo. Forse sto sognando?”. Non mi era mai
capitato prima, ero sorpreso di me stesso. Dovunque fossi andato, a partire
dall’Italia, oggi in fondo una Cina in scala ridotta, c’era sempre stato
qualche fattore di disturbo, concentratosi all’altezza dell’inguine, entro le
prime 24 ore dal mio arrivo. Sono scosso, lo so, ma un quarto di secolo passato
a viaggiare tra le scimmie oggi mi ha spinto verso una specie di nazismo
condominiale, per cui non sopporto più la libertà degli altri, quando questa si
trasforma in attentato terroristico alla mia quiete (by the way: io cerco SEMPRE di non stracciare l’anima agli altri).
Che mi stia reincarnando in un leghista? Speriamo di no.
Dal generale al
particolare, torniamo a Okinawa. L’arcipelago, dal resto dei giapponesi, è un
po’ considerato la ‘Sicilia’ locale. Abitato da gente un po’ troppo rilassata, che
arriva in ritardo, più rumorosetta e maraglia degli abitanti della ‘mainland’. In effetti ciò è vero, ma va
rapportato alla media, rigidissima, del resto del Giappone. Per un abitante di
Tokyo cinque minuti di ritardo sono un crimine sociale, per un bolognese non
sono ritardo, per un abitante di Okinawa sono un secondo di ritardo. La
rigidità della mainland, dunque, per
fortuna rimane sulla mainland, anche
se qui a Okinawa molti ‘nordisti’ importati fanno fatica, alla lunga, ad
accettare la rilassatezza degli indigeni. Rilassatezza che amo, essendomi fatto
le ossa in Brasile e non a Stokkarda.
Rilassatezza che, però, quando sbraca, rompe l’anima. Tipo quella della
famiglia che vive sotto di me. Sembrano giostrai di Enna. Figli: innumerevoli.
Collezione di immondizie all’ingresso di casa. Un cane tenuto sempre alla catena
e ricoperto da dermatiti. Ma, si sa, è il concetto stesso di ‘vicino’ (di casa)
che andrebbe abolito dall’universo, al di là del numero di sacchi di immondizie
che usa per decorare il proprio (e il mio) habitat.
Ok, ora non vorrei
passare per l’ennesimo cristiano che si lamenta del vicinato buzzurro, dunque cerchiamo
di essere più filosofi astratti, parlando di categorie (anonime, prive di
facciazze e di indirizzi) umane scassacazzi qui a Okinawa. Il nemico numero
uno, senz’altro, è il cinghio-facocero scatarratore. Da bravi eredi dei cinesi,
nonostante le molte proclamazioni di superiorità, troppi uomini di Okinawa
hanno le vie respiratorie intasate dal catarro. Sarà la vecchiaia, sarà l’aria
di mare, oppure sarà l’indomita caratteristica dei giapponesi in generale che
non usano i fazzoletti per soffiarsi naso e polmoni (è ritenuta una pratica
incivile; tirare il muco su per il naso ogni tre secondi, con tutto il baccano
che ne consegue, a volte corroborato da raschi e rimescolii di gola, invece, è
nella norma), ma qui le scaracchiate sono deflagranti.
Un mio vicino di casa
(scusatemi, l’ho rifatto, dall’universale al particolare, non ho saputo
resistere), credo pazzo - esce di casa solo di notte per fare la spesa -, si è
beccato, indovinate da chi, il soprannome di Agu-san (agu è il
saporitissimo maiale di Okinawa) grazie alla sua pratica costante delle pulizie
in gola. Pulizie fatte purtroppo non solo a pasqua, ma quarto d’ora, con sonori
echi dal suo bagno. Ogni mattina appena sveglio e prima di ogni pasto i sapori
della mia colazione/pranzo/cena sono accompagnati dal suo sottofondo musicale
che stimola un pieno apprezzamento del cibo. Da un po’ di tempo ho preso a imitarlo
e fargli eco, ma temo che sia inutile. Il ritmo dei suoi scaracchi non è
cambiato di una virgola.
Altra cinesata di
importazione di cui avrei fatto volentieri a meno è quella del fumo di
sigaretta sempre dovunque comunque. Lungo Kokusai-dōri (la strada dello
shopping e dei turisti, qui a Naha) e in alcune vie limitrofe ogni tanto
circolano, vigili e nazi, alcuni ‘controllori’ dei polmoni della collettività
(specie di ronde padane/pensionati sbirri con un giubbottino giallo, pronti a
cazziarti se osi fumare una sigaretta su quei marciapiedi). In molti
ristoranti, soprattutto quelli economici e strapopolari, i clienti possono
fumare tranquillamente, pratica che cozza di brutto contro il mio katsudon quotidiano. Questo andazzo, per
fortuna, sta lentamente cambiando, e in molti ristoranti, soprattutto se
fighetti e costosetti (quelli che non frequento mai, per carenza di mezzi), i
barbari vengono spinti in strada a impestare la porta d’ingresso.
Ho smesso di bere
superalcolici dalle feste dei sedici anni, non mi spingo mai più in là di un
bicchiere di vino o di una birra, perché poi mi viene sonno. Dunque trovo
incomprensibile il bere fino a dimenticarsi il nome della propria madre,
prerogativa di molti uomini di Okinawa (e di tutto il Giappone). Ogni tanto all’uscita
dei sakè-bar escono zombie barcollanti che non riescono a tornare a casa e
finiscono a dormire sul primo mattone in cui inciampano. Occasionalmente
qualcuno finisce sotto le ruote di un’auto (le uniche vittime a Naha), avendo
scambiato l’asfalto per un materasso. Piaga non necessariamente di origine
cinese.
Pure non solo cinese –
anche molto giapponese e coreana -, è la pratica del rumoroso risucchio dei noodles – qui soba, udon, ramen – mentre si mangia. Potrò vivere
in questo angolo del mondo per cent’anni, non riuscirò mai a farla mia. Anche di
fronte a un piatto di soba rovente. È
più forte di me, l’educazione che ho ricevuto dalle orsoline mi impone il
silenzio mentre mastico, altrimenti ‘masticare’ sarebbe parlare/risucchiare/biascicare,
e per me la lingua italiana e i suoi distinguo sono importanti. Quando vado in
una succhiatoria di soba provo a far
finta di niente, se la TV è accesa mi concentro su quello che trasmette il
convento, facendo finta di non sentire le bocche da serva, anche se di veneri,
che mi circondano.
E, per concludere
questo manifesto anticinese (mi piace continuare la tradizione: quando sono
passato dall’aeroporto di Pechino, un paio di mesi fa, ho scoperto che non solo
Fèssbokk era inaccessibile, ma pure il mio blog Pietro Times, il quale contiene un paio di chicche sulle macellerie
di cani - http://pietrotimes.blogspot.jp/2011/11/cina-cani-merenda.html - e sulla buona educazione
cinese - http://pietrotimes.blogspot.jp/2011/10/cina-il-paese-gentile.html): in estate, se possibile,
schivo Kokusai-dōri, per due motivi. Il primo è quello che segue la scuola del
mio amico bolognese Andrea: “Non vado più in piazza Maggiore, c’è troppa figa.
Poi ci sto male, meglio stare in periferia e non vedere”. Il secondo è che, in
questo caldo periodo, la zona del turismo è invasa da urlatori cini. Non riesco
ad arrivare a fine ramen, quando di
fianco mi si è piazzata una famiglia cinese in vacanza. Mi si chiude lo stomaco
e i noodles mi si bloccano dalle
parti del pomo d’Adamo. Per tornare da quelle parti aspetto la fine di
settembre, quando lo sciame è tornato a casina sua a masticare teste d’aglio.
P.S.: Quasi
dimenticavo! Per essere obiettivi, e non apparire incarognito solo con i
cinesi. Cha minchia ci fanno, qui, tutti ‘sti militari americani??
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