Non solo durante le mie
faticose lezioni di Nihon-go, ma
anche nella vita quotidiana, di recente ho imparato la parola giapponese doreiì: ‘schiavo’. Diversi lettori di questo
blog, perlopiù italiani in fuga dal benessere (economico, sociale) del Bel Paese
approdati in Giappone, a volte a traino di una seconda metà indigena, mi stanno
contattando per avere informazioni sulla situazione del lavoro a Okinawa. Non
amo scoraggiare il prossimo, ma la dura realtà è che qui, in media, i salari
sono poco più della metà di quelli di Tokyo. La qualità della vita, però, è – a
mio univoco parere – molto più elevata (a meno che a Tokyo non siate un boss
della Yakuza: allora le cosine, almeno finché qualche picciotto di una cosca
nemica non vi avrà reciso il pomo d’Adamo a katanate, vi andranno benino). Un
cameriere a Okinawa, di solito, è doreizzato
alla tariffa di 700 yen (5,4 euro al cambio di un minuto fa) all’ora. Da
quando l’euro è entrato a far parte della nostra vita e a seminare terrore, ho
sempre ritenuto ignobile lavorare – per qualsiasi tipo di sgobbo e a qualsiasi
latitudine dell’universo – per meno di 10 euro l’ora. Meno = sfruttamento, per
me (per la cronaca: non sono figlio di papà, non ho capitali nascosti da
nessuna parte, pensioni, risparmi, salvadanai).
Qualche tempo fa un
intrallazzatore vicino di casa mi ha proposto l’Affare della Vita: chef
italicus, per un facoltoso uomo d’affari che ha intenzione di aprire un
ristorante a settembre. Li ho invitati entrambi al mio workshop di cucina
italiana che ho tenuto qualche giorno fa (http://unitalianoaokinawa.blogspot.jp/2013/06/allora-ieri-e-andata-cosi.html), dove si sono abboffati senza ritegno, a mio ingenuo parere un segnale
di apprezzamento della sbobba. Qualche giorno dopo ci siamo incontrati di nuovo
in un izakaya per approfondire la
situèscion. L’uomo ‘d’affari’ è arrivato con un’ora di ritardo, ma non mi sono
offeso (anche se in Giappone è un reato prossimo all’omicidio): in quei
sessanta minuti ho spazzolato tutto quello che la cameriera ha portato, e si
trattava di roba serissima. L’uomo d’affari, tra una sigaretta e l’altra, ha
buttato giù la sua idea: un locale dove fare musica e bere, con cucina
italiana. Frequentato perlopiù da facoltosi pensionati, nel quartiere di
Shintoshi. Vieni a vedere il locale? Ha una grande cucina. Dopo due giorni sono
corso a vedere.
La cucina, in effetti,
era una piccola figata. Con i fuochi grossi, come piacciono a me. La musicalità
del luogo, anziché incentrata su spettacoli dal vivo (come avevo ottusamente
capito), verrà dall’ascolto del miliardo di vinili (un’intera parete) che il
tipo colleziona. Perlopiù jazz e rock, roba mediamente per orecchie pulite e non
da contadini (niente vaschirossi né brùssprinstiin, per intenderci). L’uomo
affari, da buon bricoleur, sta
rimettendo a posto il locale con le proprie manine, e bisogna ammetterlo: anche
se fuma come un tabaccaio, con la cazzuola ci sa fare. Ho ficcanasato tra le
stanze, con aria e commenti di approvazione. Dalle chiacchiere con il boss - ‘Magari
potremmo fare un menù italiano usando la goya
(http://unitalianoaokinawa.blogspot.jp/2013/04/e-verde-ma-non-e-uno-zucchino.html) e il gurukun (pesce di Okinawa)…’; ‘Sai fare il poisson?’ - ho capito che il locale, più che un vero ristorante
italiano per gente che sa che cosa si infila in bocca, sarebbe stato un
mini-club con menù al profumo d’Italia per amici pensionati alcolisti, in cui
il proprietario avrebbe fatto sfoggio di ricchezza, conoscenza internèscional e
collezione di dischi. Che ci faccio qui®?
Quando la moglie del
capo è arrivata e ci ha portato qualcosa da bere (aria da cane bastonato, a
fatica ha risposto al mio konnichiwa;
mi sa che a casa ha una vitina da dorei),
abbiamo iniziato a tirare le somme. ‘Tra un paio di settimane vorrei fare una
festicciola per una dozzina di persone per inaugurare il locale, te la senti di
cucinare?’, mi ha chiesto. Al mio sì è seguito un menù ideato per l’occasione,
roba con la quale ho fatto leccare i baffi ai marziani di svariati pianeti, a
prova di bocche ignoranti e sopraffine. ‘Quanto per il disturbo (la giornata di
lavoro)?’, ho chiesto al boss. ‘Mmmm… prima voglio vedere se quello che cucini
è buono’, mi ha detto. Ma come - mi sono chiesto -, non c’eravate, tu, la tua
boccuccia e il tuo stomaco, al mio workshop? Non eravate voi quelli che
masticavano come bidoni aspiratutto? Fratelli gemelli? Sentendo puzza di arrosto
bruciato, ho ampliato la mia domanda. ‘Mi scusi, e per lavorare qui da
settembre in poi, come chef, quale sarebbe il mio compenso?’ ‘900 yen l’ora’. La
paga di un cameriere, in pratica. Ho finito la bibita della moglie, ho
ringraziato, salutato e inforcato l’uscita. L’uomo ‘d’affari’ ha avuto il
coraggio di dire, mentre infilavo di corsa la porta, ‘Rimaniamo tomodachi (amici), eh?’. Non so perché,
ma in quell’istante mi è venuto in mente il maledetto Mario de Filippi. Assieme
a un bel vaffanculo, ça va sans dire.
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